Nei giorni di Sanremo l'impegno principale degli intellettuali contemporanei, quelli aderenti allo spirito dell'aperitivo, è di schivare Sanremo. Li riconosci perché fingono di non sapere nulla, nulla mica solo del Sanremo di quest'anno ma nulla nel senso più ampio: nei giorni di Sanremo c'è gente che nega di avere mai sentito nominare Ramazzotti, la Pausini o addirittura Garibaldi. Il vero gioco degli "impegnati" sta nell'imparare ad estraniarsi dal resto del mondo, assumere un mezzo accento francese e indossare tutto lo snobismo medio borghese. «Bella ieri la canzone di...» e subito l'alternativo appuntito comincia con un «Sanremo? Non lo guardo! Non mi piace! Ma che schifo!». Eppure, sarà che sono fessacchiotto di carpaccio di cuore, non si può non ricordare quanto Sanremo sia il viaggio nelle corde recondite della fanciullezza davanti alla televisione, quando il Festival era un alito di stupore spolverato sul resto della famiglia inchiodata davanti al televisore e ritrovarselo oggi in fondo significa anche essere catapultati di nuovo lì. Ma Sanremo, no, è off, generazionalmente passato. Pensavo stasera che siamo pieni di intellettuali che si costruiscono con l'odio contro qualcosa o qualcuno: patetici fomentatori diventati leader di partito contro i terroni e gli immigrati, puttanieri certificati saliti alla gloria per la potabile propensione all'impunità, intellettuali contro i gay, intellettuali contro i comunisti, intellettuali contro gli intellettuali, forbiti arrabbiati perché troppo forbiti contro i pochi forbiti, portatori insani di pregiudizi convinti di avere i pregiudizi più eleganti che si siano visti in giro. Tutti contro. In fondo anche questa mia rubrica di buongiorno per Left è scivolata troppo spesso (troppo spesso per l'ecologia umorale di una narrazione intellettualmente onesta) nella polemica, nello sdegno sottovuoto e nel gne gne. Bene. Ieri sera, mi confesso, durante una cena con amici passata a sfogliare le candidature delle prossime amministrative alla fine ci siamo ritrovati a guardare Sanremo. Nessuno si è preso la briga di confessare di avere cambiato canale sul telecomando. Eppure. Eppure, alla fine ci siamo ritrovati a guardare Sanremo e io che mi sono consumato a studiare da bambino il pianoforte quando ho ascoltato Ezio Bosso, io che mi sono cancellato le righe dei polpastrelli a strofinare tasti, a vedere lui che trovava la forza di rimettersi in piedi pur di suonare salendo gli scalini che lo portano al suo cielo, io mi sono commosso. Forse mi è sceso in testa lo zucchero a velo che inchiodava i miei zii, i miei nonni e i miei genitori. E mi sono commosso a pensare quanto sia forte l'emozione quando diventa popolare se si impara a viverla senza agorafobia. E mi sono detto, pensa cosa sarebbe scriverlo, mi sono detto. E l'ho scritto. Buon giovedì.

Nei giorni di Sanremo l’impegno principale degli intellettuali contemporanei, quelli aderenti allo spirito dell’aperitivo, è di schivare Sanremo. Li riconosci perché fingono di non sapere nulla, nulla mica solo del Sanremo di quest’anno ma nulla nel senso più ampio: nei giorni di Sanremo c’è gente che nega di avere mai sentito nominare Ramazzotti, la Pausini o addirittura Garibaldi. Il vero gioco degli “impegnati” sta nell’imparare ad estraniarsi dal resto del mondo, assumere un mezzo accento francese e indossare tutto lo snobismo medio borghese. «Bella ieri la canzone di…» e subito l’alternativo appuntito comincia con un «Sanremo? Non lo guardo! Non mi piace! Ma che schifo!».

Eppure, sarà che sono fessacchiotto di carpaccio di cuore, non si può non ricordare quanto Sanremo sia il viaggio nelle corde recondite della fanciullezza davanti alla televisione, quando il Festival era un alito di stupore spolverato sul resto della famiglia inchiodata davanti al televisore e ritrovarselo oggi in fondo significa anche essere catapultati di nuovo lì. Ma Sanremo, no, è off, generazionalmente passato.

Pensavo stasera che siamo pieni di intellettuali che si costruiscono con l’odio contro qualcosa o qualcuno: patetici fomentatori diventati leader di partito contro i terroni e gli immigrati, puttanieri certificati saliti alla gloria per la potabile propensione all’impunità, intellettuali contro i gay, intellettuali contro i comunisti, intellettuali contro gli intellettuali, forbiti arrabbiati perché troppo forbiti contro i pochi forbiti, portatori insani di pregiudizi convinti di avere i pregiudizi più eleganti che si siano visti in giro. Tutti contro.

In fondo anche questa mia rubrica di buongiorno per Left è scivolata troppo spesso (troppo spesso per l’ecologia umorale di una narrazione intellettualmente onesta) nella polemica, nello sdegno sottovuoto e nel gne gne. Bene. Ieri sera, mi confesso, durante una cena con amici passata a sfogliare le candidature delle prossime amministrative alla fine ci siamo ritrovati a guardare Sanremo. Nessuno si è preso la briga di confessare di avere cambiato canale sul telecomando. Eppure.

Eppure, alla fine ci siamo ritrovati a guardare Sanremo e io che mi sono consumato a studiare da bambino il pianoforte quando ho ascoltato Ezio Bosso, io che mi sono cancellato le righe dei polpastrelli a strofinare tasti, a vedere lui che trovava la forza di rimettersi in piedi pur di suonare salendo gli scalini che lo portano al suo cielo, io mi sono commosso. Forse mi è sceso in testa lo zucchero a velo che inchiodava i miei zii, i miei nonni e i miei genitori. E mi sono commosso a pensare quanto sia forte l’emozione quando diventa popolare se si impara a viverla senza agorafobia. E mi sono detto, pensa cosa sarebbe scriverlo, mi sono detto.

E l’ho scritto. Buon giovedì.