«Siamo il Cile o l’Argentina del Medio Oriente, siamo il Paese dei desaparecidos», dice l’avvocato comunista Malek Adly, che lo ha conosciuto. Sulla sua morte la danza dei depistaggi

«Sono un avvocato, conosco la legge, non faccio niente di sbagliato, puoi scrivere il mio nome. Io sono Malek Adly». È un avvocato comunista che si batte per i diritti economici e sociali dei lavoratori e ha conosciuto Giulio alla fine del 2015. «Non eravamo amici, ma chiunque si occupa di sindacati mi conosce, perché difendo i diritti dei lavoratori, sono il referente per le questioni sociali». Per parlare del caso Regeni si dovrebbe parlare delle rivendicazioni sociali degli ultimi che lui studiava, di come sono peggiorate insieme al resto delle libertà civili dall’era Mubarak fino a quella di Morsi,  all’ombra calda delle piramidi.
Mentre sulle sue sette costole rotte, tagli e percosse, scosse elettriche ai genitali indaga Roma, al Cairo indaga Khaled Shalaby, in precedenza già condannato per falso ideologico e morte inflitta per tortura. È stato scelto come capo delle investigazioni a Giza. «Non stupitevi. Hanno tutti una reputazione simile alla sua, non c’era nessuno di pulito da scegliere, sono tutti corrotti» dice Malek. Shalaby fu il primo a formulare il depistaggio sulla morte italiana parlando di incidente stradale, ma fu smentito da un altro cairota, il procuratore generale Ahmed Nagi. Intanto più si allunga l’indagine, più si allarga il cerchio delle ipotesi. Più si gettano sassi di indizi nello stagno egiziano, più si propagano le onde lontane dal nucleo della verità di quella notte di gennaio in cui Giulio è scomparso.
La settimana scorsa mentre migliaia di medici protestavano al Cairo contro la brutalità usata dalla polizia sui loro colleghi pestati in un ospedale del distretto di Matareya, veniva prosciolto da tutte le accuse Yassin Hatem Salah Eddin. Rischiava 15 anni di prigione l’agente di polizia colpevole dell’omicidio di una donna e di un simbolo, Shaimaa el Sabbagh, attivista di sinistra scesa in strada per un corteo d’anniversario, il quarto, trascorso dalla rivoluzione di piazza Tahrir. Yassin si è allontanato per le strade del Cairo da uomo libero. L’immagine di Shaimaa ormai senza vita nella braccia di un suo compagno divenne emblema della repressione di un popolo intero. Un anno fa moriva lei, quella che al Sisi definì «mia figlia, una figlia d’Egitto». Suonano per questo come campane a morto le parole di Abdel Ghaffar, ministro degli Interni egiziani, che ha ribadito che il caso Regeni verrà trattato «come se si trattasse di un egiziano».


 

Questo articolo continua sul n. 8 di Left in edicola dal 20 febbraio

 

SOMMARIO ACQUISTA