«Il più intenso desiderio di un fotografo di guerra è la disoccupazione».

Robert Capa, in Life, grandi fotografi


Fu un straordinario viaggio in Italia quello che Robert Capa fece  durante la guerra. La resistenza, la lotta antifascista, l'Italia devastata dai bambardamenti furono raccontate in 78  memorabili immagini in bianco e nero  dal 5 marzo al 10 luglio alla Galleria d’arte moderna e contemporanea Raffaele De Grada di San Gimignano. Il fondatore dell'agenzia Magnum che era arrivato nella penisola "embedded", al seguito dell'esercito americano. Nonostante il nome d'arte che si era dato e l'ingaggio non era un cittadino americano.  Robert Capa, infatti, era lo pseudonimo, il nome d'arte di un intraprendente giovane ungherese  di origini ebraiche, che a diciotto anni era emigrato in Germania. Il suo vero nome era Endre Ernő Friedmann, era nato nel 1913 e, giovanissimo, si era avvicinato al partito comunista. Le sue simpatie politiche quanto l'origine della sua famiglia gli resero la vita impossibile in Germania. Nel 1933, con l'ascesa del nazismo al potere, dovette lasciare il lavoro in uno studio fotografico di Berlino e scappare all'estero. Riparò in Francia e qui con la compagna Gerda Taro cominciò un'intensa e avventurosa carriera da freelance. Quando Capa arrivò in Italia aveva già trascorso un anno in mezzo al conflitto sino-giapponese e la Guerra civile spagnola (1936-1939), realizzando scatti entrati nella storia della fotografia. Alcuni anche discussi come la foto in cui si vede un miliziano repubblicano colpito a morte. «Coloro tra noi che hanno conosciuto Capa sanno che non avrebbe mai truccato una foto, era del tutto impossibile» ha scritto il fotografo della Magnum John G. Morris in una lettera che il New York Times non ha mai pubblicato ma che è pubblicata ad incipit della monografia Robert Capa, tracce di una leggenda pubblicata da Bernard Lebrun e Michel Lefevre in Italia per i tipi di Contrasto. La mostra ideata dal Museo Nazionale Ungherese di Budapest e Fratelli Alinari e ripercorre dgli anni in cui Robert Capa arriva in Italia come corrispondente di guerra. Capa racconta in presa diretta la vita dei soldati e dei civili, dallo sbarco in Sicilia fino ad Anzio, lungo un arco di tempo che va da luglio 1943 al febbraio 1944raccontando le persone, i loro sguardi, la paura, la fatica, lo smarrimento, ma anche un grande coraggio e tenacia. È quello che si legge nel volto arso del sole di operai e contadine, di donne anziane che camminano a fatica fra le macerie, ma che non si danno per vinta. È un’umanità toccante e priva di retorica, quella che Capa riesce a fotografare «spingendosi fin dentro il cuore del conflitto». Le immagini colpiscono ancora oggi per la loro immediatezza e per l’empatia che scatenano in chi le guarda. Lo spiega perfettamente John Steinbeck in occasione della pubblicazione commemorativa «Capa sapeva cosa cercare e cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino». Ed è così che Capa racconta la resa di Palermo, la distruzione della posta centrale di Napoli o il funerale delle giovanissime vittime delle Quattro Giornate di Napoli. E ancora, vicino a Montecassino, la gente che fugge dalle montagne dove infuriano i combattimenti. E i soldati alleati, accolti a Monreale dalla gente, o in perlustrazione nei campi. Il racconto della guerra in Italia fino alla liberazione non sarebbe stato il suo ultimo teatro di guerra. Capa documentò anche il conflitto arabo-israelian (1948) e la Prima guerra d’Indocina (1954), dove prematuramente perse la vita per le ferite riportate dall'esplosione di una mina. Lasciando non solo le sie straordinarie immagini, ma anche  una storica agenzia come la Magnum. Robert Capa  l'aveva fondata a Parigi insieme con Henri Cartier-Bresson, David “Chim” Seymour, George Rodger e William Vandivert.  In quegli anni il genere reportage conobbe il momento di massima espressione: finita la Seconda guerra mondiale c’era la necessità di capire, di vedere e provare a ricostruire i fatti della storia anche attraverso il racconto fotografico. @simonamaggiorel [huge_it_gallery id="153"]   gallery a cura di Monica Di Brigida

«Il più intenso desiderio di un fotografo di guerra è la disoccupazione».

Robert Capa, in Life, grandi fotografi


Fu un straordinario viaggio in Italia quello che Robert Capa fece  durante la guerra. La resistenza, la lotta antifascista, l’Italia devastata dai bambardamenti furono raccontate in 78  memorabili immagini in bianco e nero  dal 5 marzo al 10 luglio alla Galleria d’arte moderna e contemporanea Raffaele De Grada di San Gimignano. Il fondatore dell’agenzia Magnum che era arrivato nella penisola “embedded”, al seguito dell’esercito americano. Nonostante il nome d’arte che si era dato e l’ingaggio non era un cittadino americano.  Robert Capa, infatti, era lo pseudonimo, il nome d’arte di un intraprendente giovane ungherese  di origini ebraiche, che a diciotto anni era emigrato in Germania. Il suo vero nome era Endre Ernő Friedmann, era nato nel 1913 e, giovanissimo, si era avvicinato al partito comunista. Le sue simpatie politiche quanto l’origine della sua famiglia gli resero la vita impossibile in Germania. Nel 1933, con l’ascesa del nazismo al potere, dovette lasciare il lavoro in uno studio fotografico di Berlino e scappare all’estero. Riparò in Francia e qui con la compagna Gerda Taro cominciò un’intensa e avventurosa carriera da freelance.

Quando Capa arrivò in Italia aveva già trascorso un anno in mezzo al conflitto sino-giapponese e la Guerra civile spagnola (1936-1939), realizzando scatti entrati nella storia della fotografia. Alcuni anche discussi come la foto in cui si vede un miliziano repubblicano colpito a morte. «Coloro tra noi che hanno conosciuto Capa sanno che non avrebbe mai truccato una foto, era del tutto impossibile» ha scritto il fotografo della Magnum John G. Morris in una lettera che il New York Times non ha mai pubblicato ma che è pubblicata ad incipit della monografia Robert Capa, tracce di una leggenda pubblicata da Bernard Lebrun e Michel Lefevre in Italia per i tipi di Contrasto.
La mostra ideata dal Museo Nazionale Ungherese di Budapest e Fratelli Alinari e ripercorre dgli anni in cui Robert Capa arriva in Italia come corrispondente di guerra. Capa racconta in presa diretta la vita dei soldati e dei civili, dallo sbarco in Sicilia fino ad Anzio, lungo un arco di tempo che va da luglio 1943 al febbraio 1944raccontando le persone, i loro sguardi, la paura, la fatica, lo smarrimento, ma anche un grande coraggio e tenacia. È quello che si legge nel volto arso del sole di operai e contadine, di donne anziane che camminano a fatica fra le macerie, ma che non si danno per vinta. È un’umanità toccante e priva di retorica, quella che Capa riesce a fotografare «spingendosi fin dentro il cuore del conflitto».

Le immagini colpiscono ancora oggi per la loro immediatezza e per l’empatia che scatenano in chi le guarda. Lo spiega perfettamente John Steinbeck in occasione della pubblicazione commemorativa «Capa sapeva cosa cercare e cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino».

Ed è così che Capa racconta la resa di Palermo, la distruzione della posta centrale di Napoli o il funerale delle giovanissime vittime delle Quattro Giornate di Napoli. E ancora, vicino a Montecassino, la gente che fugge dalle montagne dove infuriano i combattimenti. E i soldati alleati, accolti a Monreale dalla gente, o in perlustrazione nei campi.

Il racconto della guerra in Italia fino alla liberazione non sarebbe stato il suo ultimo teatro di guerra. Capa documentò anche il conflitto arabo-israelian (1948) e la Prima guerra d’Indocina (1954), dove prematuramente perse la vita per le ferite riportate dall’esplosione di una mina. Lasciando non solo le sie straordinarie immagini, ma anche  una storica agenzia come la Magnum. Robert Capa  l’aveva fondata a Parigi insieme con Henri Cartier-Bresson, David “Chim” Seymour, George Rodger e William Vandivert.  In quegli anni il genere reportage conobbe il momento di massima espressione: finita la Seconda guerra mondiale c’era la necessità di capire, di vedere e provare a ricostruire i fatti della storia anche attraverso il racconto fotografico.

@simonamaggiorel

 

gallery a cura di Monica Di Brigida