Il libro di Jonathan Israel riaccende la discussione sulla rivoluzione e le radici del terrore. Alla sbarra la religiosità e il popolusimo xenofobo di Robespierre, allievo di Rousseau. Anche nella sferzante biografia di Peter McPhee.

Il regista Mario Martone ha riacceso i riflettori sulla rivoluzione francese mettendo in scena La morte di Danton di quel genio visionario che fu Georg Büchner. Lo ha fatto con un allestimento (fino al 13 marzo al Piccolo di Milano e poi in tour) che dietro il dramma storico indaga il versante umano e «i nervi scoperti » della Rivoluzione, portando in primo piano quelle contraddizioni laceranti che poi la fecero naufragare nel sangue e nel Terrore.
Con differenti mezzi e strumenti, ad andare alla ricerca delle radici profonde e “invisibili” della rivoluzione, sul versante del pensiero, era stato un paio di anni fa il collettivo Wu Ming con il monumentale romanzo storico L’armata dei sonnambuli (Einaudi) che arruolava il medico e ipnotista Franz Anton Mesmer fra gli ispiratori dei giacobini.
Ora a dare nuova linfa al dibattito arriva l’altrettanto monumentale saggio di Jonathan Israel La rivoluzione francese, Una storia intellettuale dai diritti dell’uomo a Robespierre (Einaudi). Un volume che dipana per oltre mille pagine una affascinante tesi sulle origini e sul drammatico epilogo della rivoluzione, argomentando in modo colto e avvincente una tesi scomoda, per certi versi spiazzante, che ha fatto storcere il naso a non pochi commentatori. Innanzitutto perché, come aveva già aveva iniziato a fare nel volume La rivoluzione della mente (2011), Israel non segue la strada consueta di cercare le cause del terremoto rivoluzionario in ragioni economiche e materialistiche. La crisi congiunturale che la Francia attraversava negli ultimi decenni del Settecento, le finanze dissestate dello Stato, la carestia, la rivolta dei contadini e gli altri conflitti sociali restano sullo sfondo in questo nuovo saggio dell’eminente studioso che insegna Storia moderna all’università di Princeton. Non sono cancellati, ma sono messi fra parentesi, perché al centro della sua ricerca c’è l’analisi del pensiero dei principali protagonisti della rivoluzione francese, c’è lo studio e l’interpretazione dei riferimenti filosofici che animarono le loro azioni, e c’è, soprattutto, una coraggiosa denuncia della fede nascosta, dell’alienazione religiosa di molti rivoltosi, a cominciare da un leader come Maximilien de Robespierre, devoto del filosofo Jean-Jacques Rousseau e affetto da «puritanesimo morale», populismo demagogico e xenofobo.[…]


 

Questo articolo continua sul n. 11 di Left in edicola dal 12 marzo

 

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