Mentre scrivo Barack Hussein Obama sta per atterrare, con moglie e figlie, nell’isola di Cuba. Non farà gesti clamorosi: l’embargo, un crimine contro l’isola, può essere tolto solo dal congresso, non chiuderà il lager di Guantanamo, né esorterà i dissidenti a liberarsi della gerontocrazia castrista. Eppure questo viaggio è già storia. Correva il 1953, moriva Stalin e la guerra di Corea finiva con una non pace e la divisione del paese lungo il 38esimo parallelo. Charlie Chaplin, vittima del maccartismo e accusato di essere una spia comunista, lasciava per sempre gli Stati Uniti. In Iran la Cia rovesciava Mossadeq, primo ministro nominato all’unanimità dal parlamento, ma che aveva osato cacciare lo Scia e nazionalizzare il petrolio britannico. A Cuba, invece, un gruppo di disordinati ribelli assaliva la caserma Moncada, contro il ritorno, com colpo di stato, del generale Fulgencio Batista. Dispersi, uccisi, arrestati. Ma un giovane avvocato, Fidel Castro, che aveva partecipato all’assalto, si difenderà da solo in tribunale, “La Historia me absolverà” e presto diventata popolarissimo Liberato ed esiliato in Messico tornerà a Cuba, combatterà nella Sierra Maestra fino a entrare in trionfo a l’Avana, insieme a Ernesto Guevara, il Che, il primo gennaio del 1959. Storia dei vostri nonni: va bene. Però a Obama, è toccato il compito di chiuderla quella storia. L’ha fatto riaprendo il dialogo con l’Iran, lo fa oggi calpestando il suolo cubano. Se gli Ayatollah hanno vinto nel 1979,la loro rivoluzione contro lo Scia, se Cuba ha resistito all’assalto della Baia dei Porci e poi al blocco navale e all’embargo, ci sarà pure una ragione. Oggi Washington non può considerare Cuba come “il giardino di casa” dove mandare mafiosi e puttanieri danarosi. Meglio il dialogo, meglio provare a vincere la guerra invadendo i mercati dell’isola con prodotti americani, meglio mandare soldi e architetti che ristrutturino quella bella architettura coloniale. Fidel Castro – ma come si fa, con un uomo così, a distinguere verità e leggenda- lo avrebbe previsto nel 1973: “Gli Stati Uniti dialogheranno con noi quando avranno un presidente nero e quando ci sarà un Papa latinoamericano". È successo, un Papa argentino ha tracciato la strada un Presidente nero l’ha percorsa.

Mentre scrivo Barack Hussein Obama sta per atterrare, con moglie e figlie, nell’isola di Cuba. Non farà gesti clamorosi: l’embargo, un crimine contro l’isola, può essere tolto solo dal congresso, non chiuderà il lager di Guantanamo, né esorterà i dissidenti a liberarsi della gerontocrazia castrista. Eppure questo viaggio è già storia.
Correva il 1953, moriva Stalin e la guerra di Corea finiva con una non pace e la divisione del paese lungo il 38esimo parallelo. Charlie Chaplin, vittima del maccartismo e accusato di essere una spia comunista, lasciava per sempre gli Stati Uniti. In Iran la Cia rovesciava Mossadeq, primo ministro nominato all’unanimità dal parlamento, ma che aveva osato cacciare lo Scia e nazionalizzare il petrolio britannico.
A Cuba, invece, un gruppo di disordinati ribelli assaliva la caserma Moncada, contro il ritorno, com colpo di stato, del generale Fulgencio Batista. Dispersi, uccisi, arrestati. Ma un giovane avvocato, Fidel Castro, che aveva partecipato all’assalto, si difenderà da solo in tribunale, “La Historia me absolverà” e presto diventata popolarissimo
Liberato ed esiliato in Messico tornerà a Cuba, combatterà nella Sierra Maestra fino a entrare in trionfo a l’Avana, insieme a Ernesto Guevara, il Che, il primo gennaio del 1959.
Storia dei vostri nonni: va bene. Però a Obama, è toccato il compito di chiuderla quella storia. L’ha fatto riaprendo il dialogo con l’Iran, lo fa oggi calpestando il suolo cubano. Se gli Ayatollah hanno vinto nel 1979,la loro rivoluzione contro lo Scia, se Cuba ha resistito all’assalto della Baia dei Porci e poi al blocco navale e all’embargo, ci sarà pure una ragione. Oggi Washington non può considerare Cuba come “il giardino di casa” dove mandare mafiosi e puttanieri danarosi. Meglio il dialogo, meglio provare a vincere la guerra invadendo i mercati dell’isola con prodotti americani, meglio mandare soldi e architetti che ristrutturino quella bella architettura coloniale.
Fidel Castro – ma come si fa, con un uomo così, a distinguere verità e leggenda- lo avrebbe previsto nel 1973: “Gli Stati Uniti dialogheranno con noi quando avranno un presidente nero e quando ci sarà un Papa latinoamericano”. È successo, un Papa argentino ha tracciato la strada un Presidente nero l’ha percorsa.