Condanna degli atti terroristici ma anche senso di fallimento per un dialogo con i giovani che è assente. Ecco il clima che si respira nelle moschee. A raccontarlo è Izzedin Elzir, Imam di Firenze e da sei anni presidente Ucoii, l'Unione delle comunità islamiche d'Italia

Condanna degli atti terroristici ma anche senso di fallimento per un dialogo con i giovani che è assente. Ecco il clima che si respira nelle moschee. A raccontarlo è Izzedin Elzir, imam di Firenze e da sei anni presidente Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia

In molti si chiedono dove sia la reazione da parte della comunità islamica e perché i musulmani non scendano i piazza.  Izzedin, che cosa risponde?
Abbiamo fatto tutto quello che possiamo fare come cittadini italiani e europei di fede islamica. La nostra è una condanna senza se e senza ma, netta, contro questi criminali e terroristi. Certo, siamo disponibili ad abbracciare qualsiasi idea creativa che provenga dai nostri concittadini. Noi siamo cittadini italiani di fede islamica, non siamo uno Stato dentro lo Stato. Qualcuno ci chiede di fare la parte dello Stato ma noi non lo vogliamo. Noi vogliamo essere trattati come cittadini italiani di fede islamica. Non siamo stati fermi, dopo l’11 settembre abbiamo fatto tante iniziative di dialogo interreligioso, interculturale, come la moschea aperta, abbiamo chiamato la comunità ad usare la lingua italiana accanto a quella araba, siamo andati in piazza.

La comunità islamica come vive il clima del dopo Bruxelles?
Uccidere una persona è un fallimento di tutti. Qualcuno vuole mettere la comunità islamica all’angolo, costretta a difendersi. Ma il fallimento è di tutti quanti noi: la scuola, la società civile, i mass media, le forze dell’ordine. Allora è giusto non cadere nella trappola delle parti contrapposte, e dare una risposta unitaria contro l’odio razziale e religioso e contro il terrorismo.

Nella comunità islamica come viene vissuta la guerra in Siria? Le bombe contro i civili non potrebbero rappresentare anche una leva che spinge al terrorismo, magari in luoghi più disgregati come le periferie della Francia o del Belgio? Voi ne parlate?
Certo, noi discutiamo di tutto. Può essere un alibi, è vero, quello che accade in altre parti del mondo. Ma andando a vedere i profili di questi ragazzi protagonisti degli atti di terrorismo vediamo che vengono dalla criminalità comune, dallo spaccio. Non sono passati dalla moschea, ma dalla prigione, e da un giorno all’altro, tramite un maestro cattivo o tramite Internet si mettono contro, finiscono ai margini della società. È chiaro, quello che succede in Siria, Egitto, Libia, Yemen, Libano, Palestina sono fattori in più che fanno diventare terroristi persone deboli come queste.

Su la Repubblica Renzo Guolo ha analizzato ieri il fenomeno del terrorismo islamico in Europa parlando di «una profonda frattura generazionale» tra i padri e i figli che quindi si ribellerebbero un po’ alla sessantottina, verrebbe da dire, in nome di quello che loro considerano una “utopia”, continua Guolo, cioè lo Stato islamico. Questa frattura la vede anche in Italia?
C’è una frattura fra la terza e la quarta generazione di immigrati rispetto ai loro padri ma esiste anche una frattura con la loro società. Questi ragazzi non sono venuti adesso dal Medio Oriente, sono nati e cresciuti tra noi che però non siamo riusciti a creare un dialogo con loro. Ma come sta dicendo lei, questo ricorda un po’ una storia passata. Noi come italiani questa situazione la possiamo capire, perché abbiamo subìto il terrorismo nero, quello rosso, e oggi quello che chiamo terrorismo “verde”. Il concetto è lo stesso: mettersi contro la nostra società e credere che con la violenza si può cambiare il mondo. Ma loro non conoscono lafede religiosa e contestano ai genitori il fatto di non aver loro trasmesso la fede religiosa islamica. E allora hanno abbracciato questa fede come se desse loro un’ identità. Cosa molto pericolosa, di cui vediamo i risultati. Loro uccidono alla cieca. E non fanno distinzione tra musulmani e non musulmani, sono contro tutti quelli che sono diversi da loro.

Ma comunque si rifanno all’Islam, non vogliono una rivoluzione laica.
Questi ragazzi non hanno un’idea chiara, abbracciano il terrorismo verde perché è contro tutti, hanno solo il rancore contro tutti. I capi di Daesh invece sì, che hanno un progetto politico.

In questo momento nelle comunità islamiche c’è dialogo con le nuove generazioni?
Io come presidente dell’Ucoii ho cercato dal primo giorno un dialogo con i giovani ma va detto che quelli che frequentano le moschee non arrivano al 20 per cento. L’80 per cento sono cittadini italiani, addirittura non conoscono la fede religiosa, e, ripeto, i rischi purtroppo vengono soprattutto da questa fascia. Se un giovane non riconosce la sua fede religiosa e non si riconosce cittadino italiano perché ancora non abbiamo le leggi  adatte per avere la cittadinanza, – in Italia si ottiene la cittadinanza solo quando si arriva ai 18 anni – anche se si parla tanto di integrazione,  in realtà facciamo ben poco.

Si è parlato nei giorni scorsi di finanziamenti alle moschee dall’Arabia saudita. Lei cosa risponde?
Non ho preso personalmente e nemmeno come Ucoii neanche un centesimo dall’Arabia Saudita. La moschea si basa sull’autofinanziamento, e se ci sono dei donatori devono essere trasparenti.

Una laurea in Filosofia (indirizzo psico-pedagogico) a Siena e tanta gavetta nei quotidiani locali tra Toscana ed Emilia Romagna. A Rimini nel 1994 ho fondato insieme ad altri giovani colleghi un quotidiano in coooperativa, il Corriere Romagna che esiste ancora. E poi anni di corsi di scrittura giornalistica nelle scuole per la Provincia di Firenze (fino all'arrivo di Renzi…). A Left, che ho amato fin dall'inizio, ci sono dal 2009. Mi occupo di: scuola, welfare, diritti, ma anche di cultura.