Il j'accuse contro l'Europa della faccia nuova della politica curda che per due volte consecutive ha superato il 10% dei voti: «In Turchia va in scena la repressione più brutale e l'Unione ha deciso di voltare le spalle e non vedere»

L’accordo Ue-Turchia? «Una vergogna. Di più: un tradimento di quei principi a cui, almeno a parole, l’Europa dice ancora di ispirarsi». Erdogan? «Non si comporta da presidente, ma da califfo». Lo scorso novembre Salahattin Demirtas è sfuggito a un attentato: «Se sono in vita è solo perché quel giorno viaggiavo su un’auto blindata e i vetri hanno fermato i proiettili. Altri non hanno avuto questa fortuna. In Turchia chi si batte per i diritti delle minoranze e la democrazia, quella vera, rischia la vita». Colpito ma non affondato. Ammaccato ma ancora determinato a proseguire la sua battaglia di libertà. Il Davide curdo contro il Golia di Ankara. Una lotta che sembra impari, ma «se si affrontano solo le battaglie che si ha la certezza di vincere, sarebbe troppo facile. Noi curdi sappiamo che nessuno ci ha mai regalato niente e che ogni conquista è il frutto di un sacrificio individuale e collettivo». L’“Obama curdo” Demirtas, 43 anni, è il leader carismatico del Partito democratico del popolo (Hdp), l’alternativa progressista al “regime” islamista di Recep Tayyp Erdogan: alle elezioni dello scorso novembre l’Hdp ha ottenuto il 10,7% (5,1 milioni di voti), superando per la seconda volta la soglia di sbarramento.

In questa intervista concessa in esclusiva a Left, Demirtas motiva un possente j’accuse contro l’Europa e il «grande tradimento» consumato contro l’«altra Turchia» e, soprattutto, contro «i milioni di profughi siriani che Erdogan continuerà a usare come arma di ricatto nei confronti dell’Europa». Quanto alla frattura in campo curdo, Demirtas annota: «Con la brutale repressione, Erdogan punta alla radicalizzazione della lotta dei curdi. Vorrebbe far passare l’idea che per resistere non esiste altra possibilità che la via militare. Non dobbiamo cadere in questa trappola, dividerci fa il gioco di chi vuole soggiogarci».

Dopo un reiterato braccio di ferro, l’Unione Europea ha raggiunto un accordo con la Turchia. Dal suo punto di vista, cosa rappresenta l’intesa tra Bruxelles e Ankara?
È un colpo pesantissimo inferto a quanti in Turchia si battono per la democrazia, quella vera, alle donne e agli uomini che, a rischio della vita, ogni giorno si oppongono alla dittatura di Erdogan e chiedono il rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Perché la democrazia è anzitutto questo: il rispetto delle minoranze e non la dittatura della maggioranza.

E l’Europa?
L’Europa ha chiuso gli occhi di fronte ai crimini commessi dal regime, non solo contro i curdi ma nei confronti dei tanti che si battono per la libertà di stampa, che non si piegano alle “verità” di Stato, che denunciano la strategia della tensione che ha provocato centinaia e centinaia di vittime innocenti. E tutto questo nell’illusione che Erdogan fermi i flussi migratori, diventando il “Gendarme” dei confini dell’Europa. Oltre che un’illusione si tratta di un baratto vergognoso sulla pelle di milioni di persone che verranno deportate in Turchia.

Un baratto che l’Europa ha pagato a caro prezzo: 3 miliardi di euro. Insisto: Lei ha espresso la sua amarezza, ma se dovesse definire in una parola l’atto compiuto dall’Europa, quale userebbe?
Tradimento. Il tradimento di quei valori e principi di libertà che sono stati a fondamento dell’Europa comunitaria. Ogni giorno, in Turchia, va in scena la repressione più brutale: gli arresti di massa, i giornali indipendenti chiusi con la forza, i giornalisti imprigionati con l’accusa di “attività sovversiva” per aver difeso la libertà d’informare e non di spacciare come verità le bugie di Stato. Ecco perché l’Europa non ha voltato le spalle a noi, ma a se stessa.


 

Questo articolo continua sul n. 14 di Left in edicola dal 2 aprile

 

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