Cosa sono i Panama Papers? Perché sono così importanti, ma soprattuto cosa si può fare per affrontare seriamente il cancro dei paradisi fiscali, che intossica da decenni l’economia globale? Il leak dei giorni scorsi mostra quanti potenti e ricchi spostino soldi e aggirino le norme internazionali. Servono regole, sanzioni e un buon giornalismo investigativo

Dopo Svizzera e Lussemburgo, è stata la volta di Panama. Grazie al lavoro del Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi, i dati di una società legale di intermediazione societaria, la Mossack Fonseca, sono diventati pubblici. In questo modo sono stati svelati gli interessi di politici di primo piano, industriali e persone note del mondo dello sport e dello spettacolo che si celano dietro 215mila società di comodo costituite nel Paese centro-americano.

In realtà alle autorità di mezzo mondo era noto da tempo come Panama fosse un paradiso fiscale fondamentale per il riciclaggio dei proventi del narco-traffico latino-americano e per l’elusione fiscale di molti ricchi e di società multinazionali presenti nelle Americhe. Ma in pochi sanno perché Panama è una meta sempre più ambita per chi cerca di pagare meno tasse o di nascondere con maggior sicurezza i propri patrimoni all’estero. Nonostante gli sforzi per una maggiore cooperazione internazionale in materia fiscale, messi in campo a partire dalla crisi del 2007-2009, molte giurisdizioni ancora resistono all’obbligo di rendere disponibili le informazioni sui patrimoni depositati in banche o società di comodo. Sulla lista nera redatta dall’Unione Europea ci sono ancora 30 paesi (compresa Panama). Per l’OCSE sono numerose le giurisdizioni che stanno facendo progressi nell’ambito delle peer review del Global Forum sulla trasparenza fiscale. Ma Panama deve ancora avviare il secondo stadio della revisione, dopo un annoso tira e molla per riuscire a superare il primo. A oggi sono solo quattro le giurisdizioni al mondo a non aver preso alcun impegno per lo scambio automatico delle informazioni. Oltre a Panama, Vanuatu, Nauru e Bahrein.

Proprio la garanzia della segretezza societaria o bancaria, prima ancora del regime fiscale alquanto agevolato, è il motivo principale del perché tanti ricchi spostano i loro patrimoni in questo Paese. Si badi bene, stiamo parlando solo della ricchezza di singoli soggetti e non dei patrimoni di società multinazionali o di veicoli societari collegati al crimine organizzato.

A Panama non è difficile aprire una società di comodo. Basta utilizzare i servizi di imprese specializzate e trovare dei prestanome che nascondano l’identità dei beneficiari ultimi, ossia i veri proprietari. Una volta garantita la segretezza societaria il gioco è fatto, grazie a uno schermo che rende opaca ogni conoscenza delle varie “scatole” create ad arte. Tecnicamente è lecito tenere patrimoni all’estero purché si dichiarino al fisco, dal momento che beneficiando degli accordi contro la doppia imposizione si calcolerebbe quanto pagare in Italia e nel paese estero. Ma in realtà si sa che chi sposta i patrimoni lo fa proprio per non dichiararli. Secondo l’autorevole Tax Justice Network, nei paradisi fiscali singoli individui – non quindi società private – celerebbero almeno 21mila miliardi di dollari.

Dopo l’ennesimo leak spettacolare, in molti si chiedono che cosa succederà. Nonostante tanti annunci e impegni presi sulla carta da G20 e OCSE, quest’ultimo scandalo ci dimostra che i paradisi fiscali continuano a esistere. Eccome.
È un duro colpo, quello sferzato contro le autorità panamensi, che si troveranno inondate di richieste di informazioni da parte delle autorità inquirenti di tutto il mondo. Si sono già attivati la Francia, il Regno Unito, l’Australia e la Norvegia. Altri seguiranno, inclusa forse l’Italia. Senza un’acquisizione formale di queste informazioni dagli omologhi panamensi, difficilmente le autorità degli altri paesi potranno procedere nei confronti delle varie persone sospettate. Da noi nel 2015 l’elusione fiscale è stata depenalizzata dal governo Renzi con l’introduzione dell’istituto dell’abuso del diritto nell’ambito della maxi delega fiscale. La giurisprudenza italiana, poi, non è così netta sulla materia. Si pensi alla sentenza della Cassazione della fine del 2014, che a sorpresa ha prosciolto Dolce e Gabbana dall’accusa di evasione fiscale tramite società di Lussemburgo.

Allora che cosa si può fare per affrontare seriamente il cancro dei paradisi fiscali, che intossica da decenni l’economia globale? La creazione dei registri pubblici delle imprese che indichino chi sono i reali beneficiari è imprescindibile. In Europa lo richiede la nuova legislazione contro il riciclaggio, anche se vari paesi stanno opponendosi alla pubblicizzazione di questi dati. Quindi servono veri accordi per lo scambio automatico delle informazioni tra le varie giurisdizioni. A chi si rifiuta vanno imposte pesanti sanzioni economiche e commerciali. La pubblicizzazione e non il semplice scambio di informazioni tra autorità competenti sarebbe un ottimo deterrente per l’elusione fiscale, visto che ognuno potrebbe a questo punto analizzare i dati e rivelare i suoi leaks. Come prevedono gli accordi internazionali in materia, è centrale che l’elusione fiscale sia considerato un reato, anche perché è prodromica al riciclaggio di denaro. Il governo deve ritornare sui suoi passi e rivedere le norme appena introdotte, che lanciano il segnale sbagliato ai ricchi contribuenti italiani.

Infine, il problema più grande riguarda le società multinazionali, che grazie ai paradisi fiscali eludono sistematicamente la tassazione nei paesi dove producono e vendono di più, come ci insegnano i casi Starbucks, Amazon, Google e Apple. Serve un obbligo di rendicontazione pubblica Paese per Paese che disaggreghi i bilanci nelle varie giurisdizioni mostrando le entrate, i profitti e le tasse pagate. Un atto del genere costituirebbe un enorme deterrente contro l’abuso dei paradisi fiscali. Secondo la nuova legislazione europea quest’anno inizieremo ad avere dati di questo tipo per il settore bancario. Sarà un leak ufficiale, che ognuno dovrà leggere con attenzione per capire che il problema è ben lungi dall’essere risolto, come molti governi ci vorrebbero far credere.

*Re:Common


 

Questo articolo lo trovi sul n. 15 di Left in edicola dal 9 aprile

 

SOMMARIO ACQUISTA