Ieri Roma ha imboccato una di quelle strade che porta perdutamente all'istituzionalizzazione della mafia quando si fa più credibile dello Stato per di più in un'aula di giustizia

C’è qualcosa di peggio della mafia che si fa politica e penetra in un tessuto amministrativo come è successo a Roma,  ben raccontato in questi giorni  dal processo ‘Mafia Capitale’? C’è qualcosa di peggio del superficiale ping pong tra le forze politiche in campo per le prossime elezioni amministrative che giocano a rimpallarsi amicizie mafiose come se stessero giocando a “mio papà è più grosso del tuo” nel cortile di un asilo? Potrebbe andare peggio rispetto ad una campagna elettorale che ha i toni di una telenovela in cui l’essere candidato sindaco è solo la scusa per la conta interna e un po’ di spudorato esibizionismo? Sì, può andare peggio. Ed è successo ieri.

Ieri Roma ha imboccato una di quelle strade che porta perdutamente all’istituzionalizzazione della mafia quando si fa più credibile dello Stato per di più in un’aula di giustizia: è successo (per chi fosse stato troppo distratto) che un testimone chiave del processo Mafia Capitale, l’imprenditore Filippo Maria Macchi, ha ufficialmente indossato il vestito dell’omertoso come si legge nei libri dello sperduto sud di qualche decennio fa. Arrivato in aula accompagnato dai carabinieri (dopo aver finto un lutto mai avvenuto di un famigliare per giustificarsi delle assenze precedenti) non ha risposto alle domande del magistrato fingendo di non ricordare di essere stato vittima d’usura da parte del ‘cecato’ Massimo Carminati, accusato di essere una delle menti della mafia romana. Un prestito di 30 mila euro ad un tasso del 400% che lo “sbadato” Macchi ha dichiarato di non avere ricevuto e poi di non avere mai restituito. E quando il pm ha fatto ascoltare la registrazione della telefonata in cui Macchi diceva al maresciallo dei carabinieri di avere paura di Carminati e soci che “anche se in galera prima o poi comunque escono e non dimenticano” lui, l’imprenditore spaventato e omertoso, si è lamentato dell’intercettazione. Giuro. Dell’intercettazione, mica delle parole dette. Succede a tutti i livelli, di questi tempi.

Così a Roma si è consumata una dinamica gravissima: un cittadino ha dichiarato sentirsi più al sicuro facendosi amico Carminati piuttosto che affidarsi allo Stato. È successo in pratica, ieri, che un presunto mafioso abbia vinto in autorevolezza dentro un tribunale. Meglio sfidare la legge piuttosto che la mafia, deve avere pensato il testimone. E non serve molto altro per capire quanto il segnale desti un allarme che dovrebbe essere tra le priorità della campagna elettorale. E invece no. Niente. Spunta solo un comunicato stampa di Pippo Civati di Possibile (che al momento non appoggia nessun candidato in campo, per dire) che giustamente si chiede «in questo momento di campagna elettorale e di strumentalizzazione sul tema della sicurezza cosa direbbero Prefettura, Questura e candidati sindaci di un uomo che continua a temere Carminati (pur in galera) piuttosto che affidarsi alla protezione dello Stato?». Già, la sicurezza. Quella che ieri Salvini indicava tra i senza tetto vicino alla stazione e la Meloni è andata a scufrugliare a Tor Sapienza. La sicurezza, appunto. Mentre Giachetti si scandalizza per il praticantato della Raggi. Pensa te che sbadati, i candidati.