Lavoravano tutti, lavoravano tanto, lavoravano sempre i minatori della Maremma. Si chiamavano anche operai di miniera. Gente che se ne va sotto terra. Se ne va lì sotto a raccogliere argento e carbone, pirite e lignite. All’inizio di agosto del 2012 vado a trovare Andrea Camilleri nella sua casa di Bagnolo di Santa Fiora in provincia di Grosseto. Ci sediamo sotto due castagni nel giardino. Si chiamava Angelo Mai il vecchio proprietario che gli ha venduto il terreno. Gliel’ha venduto e poi ci ha ripensato è andato a trovarlo con l’accetta e voleva portarsi via quei due grossi alberi. Diceva che gli aveva venduto la terra, ma non gli alberi che ci stavano sopra, ma Andrea riuscì a dissuaderlo e stanno ancora lì nel suo giardino a fare ombra. C’era anche un serpente in questo pezzo di terra alcuni anni fa. “Era un innocuo verdone” mi dice. Il nome col quale viene chiamato dipende dai posti. A Roma quel tipo di biscia l’ho sempre sentita chiamare “frustone”, in altri luoghi è chiamato “blacco” o “biacco”. “Alle sette del mattino attraversava qui e se ne andava” mi dice, “alle sette di sera riattraversava. Allora gli davamo il latte e lui beveva”. Lo chiamavano Don Gaetano a quel serpente e gli davano il latte come a un gattino. Sotto ai castagni di Bagnolo salvati dall’ascia di Angelo Mai, però, Andrea Camilleri non mi vuole parlare della sua casa e di quando c’è venuto a stare per passare qualche settimana d’estate. Ma lui è uno straordinario narratore e prima di arrivare al centro della storia mi ci vuole accompagnare piano piano. E ancora per un po’ ci gira attorno. Mi racconta che in ogni paese c’è un cognome che lo caratterizza. Per esempio a Castel del Piano si chiamano tutti “Ginanneschi” dice “e tutti si chiamano Peppe di nome. Una volta venne uno a chiedere dei mietitori e partirono otto mietitori, otto Peppe Ginanneschi… racconto meraviglioso del sindaco di Castel del Piano, narratore meraviglioso. Otto Peppe Giganteschi e un asino che si chiamava Peppe”. Così, piano piano, Andrea mi avvicina al suo racconto come quando fai un regalo a qualcuno e glielo porti in un pacco incartato e infiocchettato. Prima di capire cos’è devi togliere il fiocco e scartarlo. Il regalo di Andrea è una storia del paese di Niccioleta. Ci stava la miniera a Niccioleta, ma non solo lì. C’erano miniere in molti paesi attorno. Le chiamano “colline metallifere” e coprono un territorio che interessa quattro province. Furono sfruttate soprattutto tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 quando ai cognomi tutti uguali che riempivano questi paesi se ne aggiunsero altri che venivano dal Veneto e dalla Sicilia e dalla Sardegna. Venivano per lavorare Ernesto Balducci che era nato da quelle parti parla della “loro religione del lavoro e della famiglia, questa elementare religione del popolo che essi hanno vissuto fino a morirne”. E infatti è proprio di questo che Camilleri vuole parlarmi. Stava finendo la guerra ai primi di giugno del 1944 da quelle parti e i tedeschi cominciavano ad andarsene, ma a Niccioleta i minatori temono che prima di partire facciano saltare in aria la miniera. Così prendono le poche armi che hanno, qualche pistola e qualche fucile da caccia e fanno i turni di guardia per difendere il proprio lavoro. Dura poco perché si accorgono che se davvero arrivassero i tedeschi sarebbero meglio armati e per gli operai di Niccioletà finirebbe male. E infatti i tedeschi arrivano, ma sono tedeschi solo il comandante e i sottufficiali. I militari erano tutti italiani con divise tedesche. Si tratta dei militari scappati dopo l’8 settembre che i tedeschi avevano arrestato e internato. A loro era stata data la possibilità di tornare in libertà vestendo la divisa repubblichina o tedesca. La maggior parte rifiuta, ma quelli che accettano sanno che verranno utilizzati per un lavoro di repressione nei confronti di partigiani e civili. Lo sanno e accettano. Proprio questo accadde a Niccioleta. Il 13 giugno vennero fucilate sei persone e il giorno successivo altre 77. (il racconto di Ascanio Celestini continua su Left in edicola. In questo intervento l'attore e regista racconta la genesi del libro Quanto vale un uomo, scritto con Andrea Camilleri, Marco Paolini e Marco Baliani per l'editore Skira) [su_divider text="In edicola" style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

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Questo articolo continua sul n. 17 di Left in edicola dal 23 aprile

 

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Lavoravano tutti, lavoravano tanto, lavoravano sempre i minatori della Maremma. Si chiamavano anche operai di miniera. Gente che se ne va sotto terra. Se ne va lì sotto a raccogliere argento e carbone, pirite e lignite.
All’inizio di agosto del 2012 vado a trovare Andrea Camilleri nella sua casa di Bagnolo di Santa Fiora in provincia di Grosseto. Ci sediamo sotto due castagni nel giardino. Si chiamava Angelo Mai il vecchio proprietario che gli ha venduto il terreno. Gliel’ha venduto e poi ci ha ripensato è andato a trovarlo con l’accetta e voleva portarsi via quei due grossi alberi. Diceva che gli aveva venduto la terra, ma non gli alberi che ci stavano sopra, ma Andrea riuscì a dissuaderlo e stanno ancora lì nel suo giardino a fare ombra. C’era anche un serpente in questo pezzo di terra alcuni anni fa. “Era un innocuo verdone” mi dice. Il nome col quale viene chiamato dipende dai posti. A Roma quel tipo di biscia l’ho sempre sentita chiamare “frustone”, in altri luoghi è chiamato “blacco” o “biacco”. “Alle sette del mattino attraversava qui e se ne andava” mi dice, “alle sette di sera riattraversava. Allora gli davamo il latte e lui beveva”. Lo chiamavano Don Gaetano a quel serpente e gli davano il latte come a un gattino.

Sotto ai castagni di Bagnolo salvati dall’ascia di Angelo Mai, però, Andrea Camilleri non mi vuole parlare della sua casa e di quando c’è venuto a stare per passare qualche settimana d’estate. Ma lui è uno straordinario narratore e prima di arrivare al centro della storia mi ci vuole accompagnare piano piano. E ancora per un po’ ci gira attorno. Mi racconta che in ogni paese c’è un cognome che lo caratterizza. Per esempio a Castel del Piano si chiamano tutti “Ginanneschi” dice “e tutti si chiamano Peppe di nome. Una volta venne uno a chiedere dei mietitori e partirono otto mietitori, otto Peppe Ginanneschi… racconto meraviglioso del sindaco di Castel del Piano, narratore meraviglioso. Otto Peppe Giganteschi e un asino che si chiamava Peppe”.

Così, piano piano, Andrea mi avvicina al suo racconto come quando fai un regalo a qualcuno e glielo porti in un pacco incartato e infiocchettato. Prima di capire cos’è devi togliere il fiocco e scartarlo. Il regalo di Andrea è una storia del paese di Niccioleta.

Ci stava la miniera a Niccioleta, ma non solo lì. C’erano miniere in molti paesi attorno. Le chiamano “colline metallifere” e coprono un territorio che interessa quattro province. Furono sfruttate soprattutto tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 quando ai cognomi tutti uguali che riempivano questi paesi se ne aggiunsero altri che venivano dal Veneto e dalla Sicilia e dalla Sardegna. Venivano per lavorare Ernesto Balducci che era nato da quelle parti parla della “loro religione del lavoro e della famiglia, questa elementare religione del popolo che essi hanno vissuto fino a morirne”. E infatti è proprio di questo che Camilleri vuole parlarmi.
Stava finendo la guerra ai primi di giugno del 1944 da quelle parti e i tedeschi cominciavano ad andarsene, ma a Niccioleta i minatori temono che prima di partire facciano saltare in aria la miniera. Così prendono le poche armi che hanno, qualche pistola e qualche fucile da caccia e fanno i turni di guardia per difendere il proprio lavoro. Dura poco perché si accorgono che se davvero arrivassero i tedeschi sarebbero meglio armati e per gli operai di Niccioletà finirebbe male. E infatti i tedeschi arrivano, ma sono tedeschi solo il comandante e i sottufficiali. I militari erano tutti italiani con divise tedesche. Si tratta dei militari scappati dopo l’8 settembre che i tedeschi avevano arrestato e internato. A loro era stata data la possibilità di tornare in libertà vestendo la divisa repubblichina o tedesca. La maggior parte rifiuta, ma quelli che accettano sanno che verranno utilizzati per un lavoro di repressione nei confronti di partigiani e civili. Lo sanno e accettano. Proprio questo accadde a Niccioleta. Il 13 giugno vennero fucilate sei persone e il giorno successivo altre 77. (il racconto di Ascanio Celestini continua su Left in edicola. In questo intervento l’attore e regista racconta la genesi del libro Quanto vale un uomo, scritto con Andrea Camilleri, Marco Paolini e Marco Baliani per l’editore Skira)


 

Questo articolo continua sul n. 17 di Left in edicola dal 23 aprile

 

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