«Le battaglie in suo nome si stanno moltiplicando in Honduras», racconta Berthita, figlia di Berta Cáceres, leader indigena assassinata il 3 marzo «Gli honduregni si sono uniti al grido di “Berta è tornata e sarà milioni!”»

La 25enne Bertha Isabel Zúñiga si trovava in Messico, dove frequenta un master per diventare insegnante, quando ha appreso la notizia della morte di sua madre Berta Cáceres, leader del Consiglio civico popolare degli indigeni dell’Honduras (Copinh). La chiamata di un parente è arrivata all’alba del 3 marzo, il giorno prima del 45esimo compleanno della sua mami, come la chiama lei, poche ore dopo il delitto. Una scarica di proiettili ha travolto nel sonno la coordinatrice del Copinh, da lei cofondato nel 1993 per fermare le speculazioni dell’industria mineraria, idroelettrica e del legno ai danni dei Lenca, una delle più antiche e povere etnie indigene del Mesoamerica, relegata in condizioni di estrema povertà e oppressione nell’area sud-occidentale del Paese. Due colpi hanno ferito il messicano Gustavo Castro Soto, di Altri Mondi-Amici della Terra, relatore in quei giorni, assieme all’attivista premio Goldman 2015, al Foro di Energias Alternativas organizzato dal Copinh. Mentre la salma veniva chiusa in un sacco, gettata su un pick up e portata in elicottero all’obitorio di Tegucigalpa, Berthita faceva ritorno in Honduras grazie alla solidarietà internazionale. In migliaia hanno accompagnato il feretro per le strade polverose di La Esperanza. Corpo esile e sguardo determinato, da allora Berthita non si è più fermata. Con la famiglia e il Copinh ha intrapreso una campagna – #JusticiaParaBerta – per chiedere di far luce sull’omicidio e l’istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente sulle indagini, che pochi giorni fa hanno condotto a quattro arresti. «Non hanno ucciso solo mia madre, ma la madre di un popolo intero» ci dice la giovane via Skype.
Chi sono i responsabili del suo assassinio?
Le circostanze della sua morte sono legate al progetto idroelettrico Agua Zarca. Riteniamo che l’impresa Desarrollos Energéticos S.A., la Desa, sia coinvolta e con lei le istituzioni finanziarie che la sostengono. Anche il governo e le istituzioni repressive hanno le loro responsabilità. Contravvenendo alla convezione sul diritto alla consultazione dei popoli indigeni, lo Stato ha espropriato territori ancestrali, svendendo risorse preziose alle multinazionali straniere, proteggendo i loro interessi e non la vita di chi difende l’ambiente e i diritti umani.
Come procedono le indagini?
Considerando che il Ministerio Pubblico ha secretato l’inchiesta, negando il nostro diritto come familiari ad essere informati, non abbiamo avuto modo di verificare se i quattro arresti sono il risultato di un procedure esaustive. È stata respinta la nostra richiesta di accesso agli atti, di svolgere l’autopsia e le indagini in presenza di esperti indipendenti della Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh). Le uniche informazioni che abbiamo sono quelle fornite dal testimone Gustavo Castro Soto, secondo cui le prove sono state raccolte con scarsa professionalità. È vergognoso dover apprendere le notizie sul caso dai media, che non esitano a screditare mia madre, riducendo un assassinio politico a un crimine passionale o frutto di conflitti interni all’organizzazione. Illazioni orchestrate per spostare l’attenzione pubblica.
Si cerca quindi di criminalizzare il Copinh?
Per settimane hanno interrogato i membri del Copinh e non chi la chi minacciava mia madre. Eppure il diritto internazionale prevede che, in caso di omicidio di un difensore dei diritti umani, la linea investigativa debba partire proprio dal lavoro condotto dalla vittima. La causa dell’assasinio è da cercare nella battaglia, sua e del Copinh, contro il modello criminale dell’estrazione mineraria, neocolonialista e femminicida promosso dall’estrema destra. L’Honduras è un Paese violento e corrotto, dove regna l’impunità. Temiamo che altri omicidi possano ripetersi.
Com’è stato per Nelson Garcia, ucciso pochi giorni dopo l’omicidio di Berta?
Esatto. Benché operasse nella difesa del diritto alla casa della comunità di Rio Chiquito, nel dipartimento di Cortes, era un membro del Copinh. Prima di essere ucciso, aveva preso parte a un presidio contro lo sgombero di 150 famiglie indigene. Le operazioni sono state presidiate da un folto dispiegamento di agenti di polizia e militari della Dgic, corpo speciale al servizio dell’esecutivo, che non ha mosso un dito per indagare.

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