Con Where to invade next, nuovo film del regista Usa, si scherza sulla ricerca costante del nemico da parte degli Stati Uniti e si suggeriscono dei Paesi da invadere: quelli europei, per rubare un modello di welfare e diritti (dipinto con benevolenza eccessiva)

«Che l’obiettivo degli Stati Uniti sia la guerra infinita è una cosa che mi preoccupa da tempo e che mi ha indotto a tirare fuori la satira che serviva per questo film» dice Michael Moore presentando il suo nuovo film, Where to invade next che arriva nelle sale italiane dal 9 all’11 maggio, distribuito da Nexo Digital e Good Films.
«Negli Usa c’è questa sorta di bisogno costante di avere un nemico – sottolinea Moore -, c’è bisogno di individuare quale sarà il prossimo nemico, in modo da mantenere e alimentare il grande sistema dell’industria bellica, garantendo gli affari di chi fa soldi con questo business». E allora fingendo ironicamente di fare propria questa filosofia guerrafondaia ecco che il regista di Flint parte alla volta dell’Europa e del nord Africa per andare a piantare la bandiera a stelle e strisce, ovunque ci sia una buona idea da rubare e portare in patria. Abbiamo detto idee, non petrolio. E già qui l’invasione progettata dall’americano Moore comincia a farsi piuttosto inedita. Lo sarà ancora di più quando vedremo questo tipico americano dalla taglia over size sgranare gli occhi come Alice nel paese delle meraviglie di fronte alle ferie pagate e al periodo di maternità a cui si ha diritto in Italia; di fronte all‘università gratuita, anche per gli stranieri, in Slovenia; di fronte ai metodi non coercitivi con cui gli insegnanti finalandesi incoraggiano il senso critico e l’autonomia di pensiero degli studenti. A fare da immediato controcanto  dall’altra parte dell’oceano è l‘assenza di un sistema sanitario nazionale gratuito in America, gli altissimi debiti che opprimono gli studenti universitari negli Usa, dove esistono costose università di serie A e università di serie B e via degradando fino a quelle economicamente più abbordabili e meno di qualità.

Andando ad invadere il Portogallo il regista, che qui indossa la maschera dell’ ingenuo sprovveduto, scoprirà che si può anche depenalizzare la droga, senza che per questo aumentino i crimini correlati. Anzi ottenendo precisamente il contrario. A raccontarglielo , cifre alla mano, sono dei poliziotti portoghesi che rifiutano la pena di morte e parlano del rispetto della dignità umana. Così come nel carcere modello norvegese saranno dei poliziotti a spiegargli che l‘obiettivo non è punire e vendicarsi, ma cercare di reinserire socialmente i detenuti. Con il risultato che in Norvegia c’è il 20 per cento di recidiva, contro l’80 che si registra in America, dove le carceri- denuncia Moore- sono delle fabbriche di produzione a bassissimo prezzo :« In questo modo il capitalismo dei bianchi può ancora ricorrere allo schiavismo visto che la maggior parte dei detenuti per droga sono neri a cui è stato tolto il diritto di voto e che non lo riavranno nemmeno quando avranno scontato la propria pena».

Così Michael Moore torna a compiere una disamina serrata dei diritti negati delle minoranze e delle fasce sociali più deboli negli Usa. La pars destruens è drammatica e la denuncia potente: gli aspetti più disumani della società americana emergono con forza. Parlano da sole immagini di neri impiccati e bruciati vivi dai latifondisti del sud America e quelle dello sterminio degli indiani.

Più deboli appaiono le parti del film in cui il regista tratteggia un ritratto  in positivo delle condizioni di lavoro e dei diritti dei lavoratori in Italia, così come del sistema di giustizia norvegese o del cibo da gourmet nelle scuole francesi. Insomma In where to invade next, Micheal Moore manca di quello sguardo profondo che aveva in opere come Bowling at Colombine in cui, rievocando la strage alla Columbine High School del 1999 quando i due studenti Erik e Dylan fecero irruzione armati nella scuola indagava il volto malato dell’America. Manca quel registro di inchiesta serrata e pungente che caratterizzava Fahreneheit 9/11, con cui nel 2004 vinse la Palma d’oro in cui accusava George.W. Bush di aver vinto le elezioni in modo poco limpido e di ipocrisia dei Bush che avevano sempre fatto affari con i Bin Laden. Ma potremmo ricordare anche Sicko in cui raccontava la sanità americana, dove chi è senza copertura assicurativa non viene curato.

Ma se una certa dose di idealizzazione dell’Europa finisce per edulcorare alcune parti del film, l’intenzione di criticare un certo sistema di pensiero americano che antepone il profitto ai diritti da parte del regista è chiara e limpida. E belle ed emozionanti sono le parti del film in cui Moore ripercorre la rivoluzione tunisina, ricordando il ruolo di primo piano che vi avevano giocato i giovani e le donne, che nonostante i conservatori abbiano vinto le prime elezioni libere, sono riuscite a far diventare diritto costituzionale le pari opportunità per uomini e donne e un dovere dello Stato la lotta contro la violenza sulle donne.  E interessante è anche la parte del film dove,  grazie all’uso di documenti d’annata e di interviste dal vivo, il regista ci restituisce entusiasmanti pagine di storia dell’Islanda come lo sciopero delle donne che fece fermare l’intero Paese nel 1975 portando alla elezione della prima presidente donna della storia del Paese. @simonamaggiorel