L'anno del minimo storico delle nascite, i Neet, la preoccupazione per la povertà

L’Italia esce da una recessione lunga e profonda e il suo sistema economico e sociale ne porta ancora i segni. A fotografarli, il rapporto annuale dell’Istat presentato questa mattina a Roma: aumentano le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, la spesa per il welfare è distribuita in modo da espandere la fascia più povera del Paese e le famiglie senza fonti di sostentamento sono più dello scorso anno. A fare le spese di questi squilibri, sono soprattutto le fasce più giovani della popolazione: un quarto dei nostri giovani (il 25,7%) non studia né lavora e il 62,5% dei 18-34enni vive ancora con i genitori. Dal 2008 i Neet (quelli che non studiano né cercano lavoro) sono aumentati di oltre 500mila unità dal 2008, ma nel 2015 sono 64mila in meno del 2014 (-2,7%).

In un quadro economico ancora incerto – ha sottolineato il presidente dell’Istat Giorgio Alleva nel corso della presentazione – si segnalano sul versante positivo «una maggiore sostenibilità del debito pubblico, una ripresa di competitività sui mercati esteri e il miglioramento della condizione degli anziani». La ripresa dei consumi non è però in grado di bilanciare il calo dei prezzi energetici e l’andamento della dinamica dei prezzi è ancora molto debole. In più, se si guarda alla produzione industiale, «il numero di comparti in crescita risulta inferiore rispetto al passato».

Il 2015, però, si segnala come l’anno del minimo storico delle nascite: 488mila e 15mila in meno dell’anno precedente, con un aumento corrispondente dei decessi (+91,% su base annua) e una flessione della durata della vita media (80,1 anni per gli uomini e 84,7 per le donne, contro l’80,3 e 85,0 del 2014). Il peso delle nuove generazioni è fra i più bassi d’Europa: meno di un quarto della popolazione ha tra 0 e 24 anni, circa la metà rispetto a 90 anni fa. Un “degiovanimento” (così lo chiama Istat) fortunatamente mitigato dai 971mila bambini stranieri nati in Italia tra il 1993 e il 2014.

Sono 2,2 milioni le famiglie che non possono contare su un reddito da lavoro. Dal 9,4% del 2004, si è passati al 14,2% del 2015. Al Sud sfiorano il 25 per cento della popolazione (24,5), al Nord sono l’8,2 e al Centro l’11,5. Il livello di protezione sociale in Italia è tra i peggiori in Europa. Fa peggi di noi soltanto la gregcia. Colpa della spesa pensionistica, che assorbe risorse altrimenti destinate ad altre finalità, commenta l’istituto di statistiche, che quest’anno celebra il suo novantesimo anno di età.

In vent’anni, dal 1990 al 2010, la diseguaglianza nella distribuzione del reddito ha subito la maggiore divaricazione tra i Paesi che la misurano (utilizzando l’indice di Gini sui redditi individuali lordi da lavoro): da 0,40 a 0,51. Anche le previsioni relative alla dinamica occupazionale non fanno ben sperare. Al netto del dibattito sugli effetti del Jobs act, per l’utilizzo della forza lavoro non dsi prevedono miglioramenti sensibili: mantenendo le dinamiche attuali, nel 2025 avremo un tasso di occupazione vicino a quello del 2010.