L'Ue perde il 13% della popolazione, il 18% del Pil e 18 miliardi l'anno in contributi. Lo Scottish National Party: in nessun modo accetteremo di uscire dall'Europa. Un memo riservato preparato da Schauble.

«Questo non è un voto solo sull’Unione europea, ma è un giudizio di disaffezione verso il sistema politico che fallisce in troppi luoghi: dalle comunità date per sicure dei laburisti, a quelle colpite dai tagli dei conservatori a causa di una crisi che non sono loro ad aver causato». Nicola Sturgeon leader dello Scottish National Party ha parlato per nove minuti e annunciato quello che tutti sapevamo: sebbene con cautela e trovando la formula giusta, un secondo referendum sull’indipendenza scozzese è inevitabile. Il suo predecessore Alex Salmond ha parlato di una campagna (per l’uscita) fatta di odio e paure e twittato una bandierina europea. Il Sinn Fein nordirlandese la pensa allo stesso modo.

La tempesta per il voto britannico sull’Europa sta diventando uno tsunami e, per ora, sta investendo la Gran Bretagna e le borse di tutto il mondo: dopo le asiatiche e le europee è Wall Street a perdere il 2,7% mentre scriviamo. Nel giro di poche ore abbiamo assistito alle dimissioni del premier David Cameron e al possibile avvio del processo di separazione della Scozia che, come dicono i leader del Snp, «in nessun modo accetterà di uscire dall’Europa».

Come ha commentato con efficacia Edward Snowden: il voto dimostra come metà della popolazione si può convincere a votare contro i propri interessi in poco tempo.

A questo proposito segnaliamo un altro aspetto con il tweet qui sotto: le aree che hanno votato per uscire dall’Europa sono quelle economicamente più dipendenti economicamente dall’Unione. Votare contro i propri interessi, appunto.

La reazione dell’Europa è quella dell’invito alla cautela ma anche ferma: Juncker e diversi altri leader europei dicono che le trattative e la richiesta di far scattare l’articolo 50 dei Trattati (qui spieghiamo cos’è) va fatta senza perdere tempo. Il contrario di quel che pensa Boris Johnson, che forse si candida alla leadership dei conservatori e, comunque, si trova a essere la faccia pulita del fronte del Brexit. I presidenti del Consiglio, Commissione e Parlamento europeo – Donald Tusk, Jean-Claude Juncker e Martin Schulz, rispettivamente – e Mark Rutte, il primo ministro dei Paesi Bassi, presidente di turno, hanno scritto una dichiarazione congiunta sostenendo che qualsiasi ritardo per l’uscita della Gran Bretagna «prolungherebbe inutilmente l’incertezza…si tratta di una situazione senza precedenti, ma siamo uniti nella nostra risposta».

Certo è che per il progetto europeo la situazione si complica: l’Ue perde il 13% della popolazione, il 18% del Pil e 18 miliardi l’anno in contributi. Sia Hollande che Renzi, figure critiche della conduzione della Germania a guida tedesca, hanno parlato della necessità di fermarsi a riflettere.

Il tedesco Handelsblatt sostiene di avere in mano un piano di otto pagine preparato dal ministro delle finanze tedesco Schauble sul processo di uscita e sul futuro: la Germania vorrebbe «negoziati costruttivi sulla separazione». Dopo due anni, il governo tedesco avrebbe in mente di offrire a Londra lo status di Paese associato.

Ma nel documento si legge anche che non ci sarebbe «nessun accesso automatico al mercato unico». Il timore è incoraggiare altri Paesi come la Francia, l’Austria, la Finlandia e l’Olanda a seguire l’esempio della Gran Bretagna. «La portata dell’effetto imitazione dipenderebbe in gran parte da come verrà trattata la Gran Bretagna». Tradotto significa che Bruxelles sarà dura con il nuovo governo di Londra. Merkel ha parlato di colpo al processo di unificazione europea.

Se a Trump è piaciuto il risultato del referendum ed ha annunciato che altri Paesi seguiranno, il vicepresidente Biden ha detto che gli Stati Uniti avrebbero preferito un risultato diverso e Obama ha aggiunto che il rapporto di partnership e amicizia con l’Europa e il Regno Unito non cambia. Clinton ha parlato di «tempi incerti».

Guai possibili anche per Jeremy Corbyn: il Leave vince in tutte le aree dove il Labour prende voti e qualche deputato che non ama il leader ha già cominciato a borbottare e a parlare di necessità di ripensare la linea politica. È presto per dirlo, ma anche per il partito laburista, il referendum potrebbe essere un guaio serio.