Edoardo Albinati #Strega2016, con La scuola cattolica (Rizzoli) un romanzo che racconta una Roma piccolo borghese e conservatrice che cresce all'ombra del Cupolone. Mentre si prepara la strage del Circeo

Edoardo Albinati vince il Premio Strega 2016, con La scuola cattolica (Rizzoli), e lo dedica a Valentino Zeichen, il poeta da poco scomparso.

Il romanzo  di Albinati ci porta dall’altra parte dello specchio di una scuola dove allievi e professori sono tutti maschi, religiosi; dove la quotidianità scorre fra scherzi crudeli, competizione, giochi feroci per affermare la propria supremazia. Un bisogno spasmodico di trovare approvazione e di essere ammirati  muove questi liceali che Albinati descrive come gregari, incapaci di ribellione e di vere passioni. E’ una gioventù bruciata quella che lo scrittore romano racconta per oltre mille pagine, ma non perché sbandata, ma al contrario perché ligia al dovere e ossessivamente impegnata a sembrare diversa da come è realmente. L’autore parla di crisi adolescenziale, di travaglio nella ricerca della proria identità ancora non definita, ma le personalità che descrive – l’io narrante ad un certo punto lo dice espressamente – corrispondono piuttosto a un narcisismo malato, a un falso sé, che nasconde un vuoto, un’anaffettività, che li fa essere cinici in modo sottile come una una lama.

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Eppure questi ragazzi continuano imperterriti a fingersi amici e compagni di scuola.  Si accaniscono in modo particolare con gli insegnanti meno preteschi, come il docente di latino che con trasporto legge i poeti che cantano l’amore per una donna, una passione romantica che suscita l’ilarità e lo scherno di questi adolescenti che riversano sulle donne, ( tutte mamme ai loro occhi)  la loro violenta pretesa di carezze, ma che mirano a conquistare gli sguardi degli altri maschi, che al fondo considerano superiori. La scuola romana del quartiere Trieste, il San Leone Magno, che Albinati descrive sembra avere molto in comune con la paideia greca e con i seminari minori dove si preparano, fin da bambini, i futuri preti in una dimensione asfittica e malata che preclude ogni vero rapporto con la realtà. L’accuratezza con cui l’io narrante la tratteggia, come ha raccontato l’autore stesso, ha radici in esperienze autobiografiche. Erano gli anni in cui la piccola borghesia italiana preferiva mandare i propri rampolli alla scuola privata dei preti, pensando che potesse essere un segno di distinzione, oltreché una garanzia di educazione  chiesolina e conservatrice. Ma in questa fucina di ceto borghese che aspira a diventare la classe politica e intellettuale di domani, c’è un ragazzo che sembra portare all’estremo molte di queste caratteristiche, la freddezza, in modo particolare, il distacco dagli altri esseri umani. E’ il primo della classe, nel libro si chiama Arbus ed è una macchina da guerra in certe materie. E ha un interesse precipuo: studia i modi in cui si può uccidere, li colleziona, li simula, come in un video gioco (che all’epoca non esistevano ancora). Un aspetto però lo distingue dai compagni, non fa il gradasso, non cerca di apparire, di farsi notare, sembra timido, sfugge al contatto. Lui non si muove, ma si pensa come il primum mobile, come nel sistema aristotelico tolemaico che innerva le tre cantiche del cattolicissimo Dante. E se si muove lo fa in modo strano, come un automa.

Intanto in una terribile sera  del i fatti del Circeo, lo strupro e l’assassinio. Che Albinati descrive con un linguaggio che evoca il delirio di Angelo Izzo e suoi “sodali” e dall’altra parte si tivhama alle ricostruzioni giuridiche. E sono pagine che tolgono il respiro. Anche questi sono ragazzi del qaurtiere. Ma diversamente da Arbus e compagni non hanno più nulla di umano.

Al di là di un uso dell’apparato retorico insistito; al di là degli esibiti richiami a certa letteratura modernista come I turbamenti del giovane Törless di Musil; al di là della minuziosità con cui descrive con dovizia di dettagli i personaggi di questo memoir che ha l’aspetto di un romanzo di formazione, il talento dello scrittore Edoardo Albinati, a nostro avviso,  sta  nell’aver aver avuto il coraggio di  provare ad entrare nella testa di uccide, di provare a descrivere la malattia mentale più grave che permette di mantere un rapporto assolutamente lucido e preciso con le cose, avendo perso completamente gli affetti e il rapporto con gli altri esseri umani….