L'occidente cerca di convincere Erdogan a non esagerare con la repressione. Ma il presidente turco cerca Putin e alza il tono contro Stati Uniti ed Europa. E fra Trump, attentati eBrexit e le elites credono meno nella democrazia

Il mondo a Erdogan: fermati! Questo titolo, di Repubblica, riassume in sé i timori, le speranze, l’impotenza delle élites occidentali davanti a quel che sta succedendo a Istanbul. Fermati! Bisognava dirlo a Erdogan quando si è fatto protettore dei fratelli musulmani e poi ha stretto alleanza con gli wahhabiti. Fermati! Bisognava gridarlo quando il governo turco ha sostenuto l’Isis pur di liberarsi da Assad. Quando ha rotto la tregua con i curdi prendendo a bombardare le postazioni oltre confine dalle quali combattevano l’Isis poi i loro villaggi all’interno della Turchia. Fermatevi, siete pazzi, il vostro è il secondo esercito della Nato! Lo si sarebbe dovuto dire ai generali turchi, che quanti lacci hanno con l’alleanza atlantica, quando abbatterono un aereo russo. Fermatevi! Bisognava dirlo al governo e al partito del presidente quando in Turchia si è votato per due volte nel 2015 in mezzo alle stragi e agli attentati, usando attentati e stragi per vincere nelle urne con la strategia della tensione. Quando i giornalisti venivano arrestati e imputati di alto tradimento perché avevano portato prove dei rapporti con l’Isis, quando i giornali venivano chiusi e un avvocato difensore dei curdi ucciso per dare l’esempio. Giornali. Invece la Nato ha scelto Erdogan contro Putin. Invece Angela Merkel ha promesso ai turchi la libera circolazione e, domani, l’ingresso in Europa, a condizione che fermassero in Asia il viaggio verso Berlino dei profughi siriani.
Ora è tardi, ora Erdogan non sa che farsene dell’alleato titubante, non si aspetta più solidarietà dalla Nato, dagli Usa, dall’Unione Europea. Ora detta le sue condizioni. Cerca di contare sul futuro di Damasco e di Baghdad andando a Mosca in agosto per trattare direttamente con Putin. Ora è disposto persino a dialogare con il governo di Assad per sedersi al tavolo della spartizione del Medio Oriente. Ora si è liberato del comando della seconda e della terza armata, poste a presidio delle frontiere calde dove si giocano le sorti della guerra contro il califfo e della possibile nascita di uno stato curdo. Ora sta compiendo una brutale epurazione delle classi dirigenti turche e islamiche, con il sostegno della piccola e  piccolissima borghesia e del popolo delle moschee. Ora accusa gli americani di usare il presunto burattinaio Gülen per dire alla Turchia cosa debba e non debba fare. Ora risponde all’Europa che gli intima di non reintrodurre la pena di morte con la forza dei voti: “non mi opporrò se il Parlamento la volesse contro i golpisti!” Ora tutto è più difficile per l’Occidente.
Trovare prima un accordo con Mosca, favorire la nascita di uno stato curdo. Solo così Washington, Parigi, Berlino e Roma potrebbero vedere il bluff di Erdogan. Accettando una soluzione negoziale per l’Ucraina e ritirando le sanzioni. Poi offrendo a Putin e agli ayatollah di Teheran un tavolo negoziale per immaginare il futuro di Siria e Iraq dopo la cacciata (o l’uccisione) dell’ultimo soldato del califfo. E ventilando la nascita di una stato curdo plurinazionale, con una regione irachena, una siriana, l’altra turca autonome ma legate in una sola federazione . Senza poter usare l’antagonismo Mosca Washington, senza più in mano il ricatto migratorio, costretto a dialogare con i curdi, Erdogan dovrebbe gioco forza ridimensionarsi. Il fallito tentativo di pronunciamento militare, che egli ha definito “un regalo di Dio”, diventerebbe per lui un avviso di sfratto, il segno di un dissenso e di una sfiducia profonda fra la sua stessa gente. Le classi dirigenti di Istanbul e Ankara alzerebbero di nuovo la testa, la piccola borghesia e il popolo delle moschee capirebbero che il ritorno al boom economico non passa più per il nazionalismo e la demagogia del loro presidente. L’islam turco, più colto e tollerante, troverebbe parole contro i predicatori wahhabiti.
Ma l’Occidente è malato. L’America è alle prese con la demagogia di Trump che vorrebbe cacciare islamici e messicani, che difende il proliferare delle armi da guerra e poi chiede il pugno di ferro contro gli ex marine neri che usano quelle armi contro poliziotti che, a loro volta, troppo spesso sparano sugli afro americani. L’Europa finge di credere che la crisi ucraina sia responsabilità solo di Mosca e non anche del governo di Kiev, insediato da un colpo di stato e appoggiato da milizie fasciste. Londra nomina ministro degli esteri un uomo che ha definito “nazional socialista” l’Europa a guida tedesca e “un’infermiera sadica” la candidata democratica alla Casa Bianca. A Parigi Sarkozy gareggia con Le Pen nel dire ai francesi che il terrorismo e la follia si battono usando il “kächer – un prodotto stura lavandinii- contro la “racaille”, cioè gli immigrati magrebini di seconda e terza generazione.
Pare di cogliere una qualche «animosità contro il suffragio universale» -scrive oggi Paolo Mieli citando Luca Ricolfi- o meglio contro il popolo tout court da parte di una «élite che lo rispetta (il popolo) quando “fa la cosa giusta” ne prende commiato quando fa quella sbagliata». “Gli elettori sono diventati un insieme di essere umani che «benpensanti e governanti illuminati» considerano, sotto sotto, «cieco e abbindolabile, fino al punto di votare contro i propri interessi». Sicché il loro voto vale sì, ma fino a un certo punto”. “Queste acute notazioni di Ricolfi – conclude Mieli- ci inducono a riflettere meglio sui sentimenti di «attesa» che nella notte di venerdì scorso hanno paralizzato le cancellerie europee e quella statunitense. Gli eletti da un popolo che, secondo i «governanti illuminati» dell’Occidente, ha fatto la «scelta sbagliata» sono considerati dal consesso internazionale rimuovibili per via putschista”. Avrebbero preferito che i generali si liberassero di Erdogan, ma il colpo di mano è fallito e allora “i governi illuminati” tornano a sperare che il presidente turco si corregga da solo, tornano a fare scongiuri, a mettere la testa sotto la sabbia e a subire.