L'ultimo editoriale da direttore di Corradino Mineo

Sono passati meno di tre anni da quando Matteo Renzi vinse, con ampio margine, le primarie e fu eletto segretario del Partito democratico. Nel discorso della vittoria, il discorso della “Bella Addormentata”, egli paragonò l’Italia alla principessa di Charles Perrault. Piena di virtù, bella e intatta ma prigioniera dei rovi nel bosco incantato. Il bosco della burocrazia e dell’intermediazione, della casta e della vecchia sinistra che solo un principe rottamatore avrebbe potuto con un atto d’amore sciogliere dall’incanto.

Poco dopo, il 18 gennaio, Renzi invita al Nazareno un Berlusconi già condannato e allontanato dal Senato. Il 19 febbraio, incontra Grillo e gli grida: «Esci dal blog». Il 22 toglie la campanella di Palazzho Chigi dalle mani di Letta al quale aveva detto «Stai sereno, Enrico». Li ha corteggiati per vampirizzarli. La sua (ir)resistibile ascesa, dopo aver annunciato una riforma costituzionale tanto bonapartista quanto la destra non avrebbe osato sperare, dopo aver distribuito un cadeau di 80 euro ai dipendenti elettori tradizionali della sinistra, e promesso, in stile grillino, l’azzeramento della casta dei senatori, si concluderà con un trionfo alle europee, 41%.

Alla vigilia di ferragosto si conclude la luna di miele. Mario Draghi lo incontra in modo riservato a Città della Pieve e gli chiede meno chiacchiere politiciste e più riforme liberal-liberiste: un colpo di maglio a sindacati e diritti dei lavoratori, diritto di licenziare e abbattimento delle tasse per gli imprenditori. Il ragazzo di Rignano sa che pagherà un prezzo per questo. Decide allora di andare in fondo: il jobs act – dice – porterà nuova crescita, è dunque la riforma più di sinistra. La sinistra che non lo capisce, Landini, Camusso, Bersani, non ha storia: va rottamata. Da quel momento la narrazione renziana è proseguita su tre idee forza. Grazie a noi la ripresa sta arrivando, anzi è già arrivata. Le riforme servono a evitare gli inciuci: alla fine vince uno solo e governa per 5 anni. Il Pd è superato, ora serve un partito per l’Italia, lo chiameremo Partito della Nazione.

Due anni dopo di questa narrazione non resta più nulla. La ripresa è la continuazione della crisi in altre forme. Il Pd non sarà Partito della Nazione e, per paradosso, i 5 stelle sembrano diventati loro movimento pigliatutto, che attrae elettori di sinistra, di centro e di destra. L’Italicum non lo vuole neppure Napolitano. E delle riforme Boschi restano il linguaggio astruso e lo strame di 47 articoli della Costituzione.

Renzi è finito? Direi di sì. Ma intanto Cameron è caduto, Hollande ha ricevuto l’avviso di sfratto, Clinton ha una fifa blu di perdere con Trump. Ecco che il segretario-premier può vantarsi, in puro stile doroteo, di essere il meglio del peggio. La sua forza sta nella mancanza di un’alternativa, non solo immaginata o raccontata, ma capace di camminare sulle gambe e con il cuore di una sinistra di nuovo protagonista.

Quando, a fine dicembre, ho accettato di dirigere Left, portavo con me un progetto ambizioso, quello di trasformare la rivista nel pungolo di una ricerca collettiva, nell’organizzatore di un confronto tra le idee e le persone della sinistra. Parecchi hanno risposto all’appello: li ringrazio. Ma molti altri sono rimasti sulle loro posizioni a inebriarsi del proprio odore. La sfida non ha funzionato, nonostante l’impegno intelligente profuso dalla redazione. Ne prendo atto e lascio la direzione. Non Left, cui assicuro, per quel che vale, il mio impegno e il mio affetto.

Questo editoriale lo trovi su Left in edicola dal 6 agosto

 

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