Non che abbiano mai smesso, i dem, di litigare e discutere. Ma le accuse a Renzi sul caso delle nomine Rai sono tra le più dure di sempre, e in 10 dalla minoranza aprono il fronte del no al referendum, seguendo Walter Tocci. Cosa attende Renzi al ritorno da Rio

Matteo Renzi è con la famiglia a Rio per l’apertura dei Giochi olimpici. Da lì, tra selfie e strette di mano con gli atleti, dice «sospendiamo per due settimane le polemiche», e suggerisce di restare concentrati solo sul medagliere. Al suo fianco c’è Malagò, del Coni, e il premier pensa soprattutto alle polemiche sulla candidatura olimpica (con la sindaca Virginia Raggi che non ha mandato nessuno a Rio), ma l’appello è suonato nel partito democratico come l’augurio di una tregua estiva. Non che Renzi stia male, eh, nella polemica. Ma siccome il momento è d’oro per le beghe del Movimento 5 stelle alla prova del governo romano, pensa palazzo Chigi, sarebbe un peccato toglierli le castagne dal fuoco con l’ennesima polemica interna ai dem. Polemica che però c’è, e quasi spiace per il premier, perché anche far finta di nulla è faticoso. Due sono i fronti che alcuni colleghi poco olimpici hanno aperto con una certa forza: referendum e Rai.

Sulla Rai, come noto, fanno discutere le nomine dei nuovi direttori dei Tg, in particolare la rimozione di Bianca Berlinguer dal Tg3, con l’arrivo di Luca Mazzà, già vicedirettore di rete, un conclamato renziano (polemizzò con Giannini per la linea di Ballarò, puntualmente chiuso). Non calma la minoranza il fatto che Berlinguer pare abbia conquistato, dopo giorni di trattative, una striscia quotidiana nella fascia preserale e un serale da febbraio: Federico Fornaro e Miguel Gotor – bersaniani – si dimettono comunque dalla commissione vigilanza Rai. Un gesto plateale. Con una nota durissima che si aggiunge alle parole di Speranza che ha evocato l’editto berlusconiano: «È del tutto evidente», scrivono i due, «che le nomine dei nuovi direttori generali rispondono a una logica di normalizzazione dell’informazione pubblica, alla vigilia di importanti scadenze politiche e istituzionali e nulla hanno a che vedere con il progetto di una “nuova Rai” promesso dal Pd e dall’attuale governo e oggi platealmente disatteso».

Ed è proprio il referendum costituzionale – l’«importante scadenza politica e istituzionale» – l’altro fronte, aperto in questo caso da senatori e deputati assai meno pesanti (senza la copertura politica di Bersani, per capirci): in dieci però hanno seguito Walter Tocci e dichiarato il loro no alla riforma costituzionale, al referendum di ottobre (o di novembre, vedremo). I firmatari sono Corsini, Dirindin, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ricchiuti, Tocci, al Senato, e Bossa, Capodicasa e Monaco alla Camera. Nel partito democratico, sia chiaro, prevale ancora la mozione del “nì” su cui sono assestati per il momento – e senza grandi speranze di repentini slanci – Gianni Cuperlo, Speranza & co. Il freno a mano tirato di quel gruppo ve lo raccontiamo nel prossimo numero di Left, e non è quindi ancora grande il problema di Renzi. Anche perché pure la Cgil deve ancora fare la sua scelta. Le diverse anime interne al sindacato si stanno confrontando: per metà settembre dovrebbe arrivare un verdetto e Susanna Camusso potrà smettere di nicchiare. E così alla fine Renzi i Giochi può seguirli tranquillo, come desiderato, ma il ritorno sarà duro anche se la linea sarà quella di tenere dentro tutti, non minacciare cacciate, non alimentare – se possibile – almeno fino allo sprint finale.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 6 agosto

 

SOMMARIO ACQUISTA