L’autore delle Cosmicomiche sosteneva che «l’opacità del mondo» andasse indagata attraverso un ménage à trois: letteratura, filosofia e scienza. Un metodo di ricerca valido oggi più che mai

“Tutto in un punto” è uno dei 12 racconti che Italo Calvino raccoglie in un volume di successo, le Cosmicomiche, pubblicato nel 1965. Il brano inizia così: «Attraverso i calcoli iniziati da Edwin P. Hubble sulla velocità d’allontanamento delle galassie, si può stabilire il momento in cui tutta la materia dell’universo era concentrata in un punto solo, prima di cominciare a espandersi nello spazio. Si capisce che si stava tutti lì, – fece il vecchio Qfwfq, – e dove, altrimenti? Che ci potesse essere lo spazio, nessuno ancora lo sapeva. E il tempo, idem: cosa volete che ce ne facessimo, del tempo, stando lì pigiati come acciughe? Ho detto “pigiati come acciughe” tanto per usare una immagine letteraria: in realtà non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti».
Il vecchio Qfwfq ci riporta, con quella leggerezza e rapidità e visibilità che Italo Calvino teorizza nella sue Lezioni americane, al momento del Big Bang, quando tutto l’universo – a dar retta alla teoria della relatività generale di Albert Einstein – era racchiuso in un punticino piccolissimo, caldissimo e densissimo. In un punticino dove non c’erano né lo spazio né il tempo.
Le Cosmicomiche e poi Ti con zero (1967) e poi Palomar (1983), per citarne solo alcune, sono opere di un genere nuovo, le “favole scientifiche”, in cui Calvino parla di scienza e di matematica. Ma lo scrittore sanremese non è interessato né alle singole scoperte scientifiche né alla vita quotidiana degli scienziati. La sua attenzione è rivolta piuttosto alle nuove immagini dell’universo e dell’uomo che la scienza propone a ritmo sempre più serrato. Compito della letteratura, dice, è interpretare queste immagini, non divulgarle.
Per esempio, nota Gian Italo Bischi, in un recente lavoro su Matematica e letteratura pubblicato con Egea, Calvino usa uno strumento matematico, l’ars combinatoria, come fonte di ispirazione e come strumento creativo. In altri termini usa la matematica come metodo per creare letteratura. Non a caso Calvino fa parte di quel gruppo di letterati Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle) che, come scrive Bischi, «ricerca moduli di base, strutture e regole di costruzione narrativa che gli scrittori potessero utilizzare per realizzare tante diverse opere letterarie» con tanto di assiomi e regole formali e in analogia con quanto, in ambito matematico, cerca di fare il gruppo Bourbaki.

 

«Nella nostra tribù non si discute ormai d’altro che di razzi teleguidati, e intanto continuiamo ad andare armati di rozze asce e lance e cerbottane». Sostituiamo razzi teleguidati con droni e questa di Calvino diventa una precisa fotografia del nostro tempo.

 

Ma la cifra artistica di Italo Calvino è tale da indurre Gabriele Lolli a spiegare – anzi, potremmo dire, a dimostrare – in Discorso sulla matematica, rilettura delle Lezioni americane pubblicata con Bollati Boringhieri, che chi ha intenzione di creare matematica può ispirarsi a Calvino per realizzare le sue ricerche con leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza. Proprietà essenziali per lo scrittore, come sostiene Calvino, ma anche per il matematico creativo, come sostiene Lolli. Calvino dunque tesse un rapporto bidirezionale con la scienza. Ne è ispirato e la ispira. Ma dove nasce, questo rapporto? Beh, nasce da un’analisi precisa, oggi più che mai attuale, maturata in un periodo preciso, tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 60 del secolo scorso e che nel corso della sua elaborazione diventa una vera e propria teoria dei rapporti, ineludibili, tra scienza e letteratura. Possiamo far partire questa genesi dal 1956, anno in cui pubblica le Fiabe italiane nel tentativo, riuscito, di dare espressione a quella sorta di “realismo sociale attraverso le favole” che lo scrittore da qualche tempo propugna apertamente e coerentemente. Ma sono proprio questi, a metà degli anni 50, i mesi in cui Calvino inizia ad alzare gli occhi al cielo e a guardare lo spazio profondo. Non è un caso. Quel cielo e quegli spazi sono ormai attraversati da razzi che volano sempre più in alto. Simbolo della potenza crescente della tecnologia, capace di vincere persino la forza di gravità. Ma anche della potenza cupa della tecnologia, perché quei razzi promettono di trasportare bombe all’uranio e al plutonio sempre più potenti in pochi minuti da un capo all’altro della Terra, esponendo l’umanità al rischio dell’olocausto nucleare.
È questa la nuova, tragica realtà. Calvino la vuole narrare per mezzo di un racconto – il suo primo racconto cosmico – che assomiglia a una fiaba: “La tribù con gli occhi al cielo”. E che come le fiabe ha un’allegoria fin troppo chiara: la tribù protagonista, la tribù con gli occhi al cielo, non è altro, infatti, che l’umanità intera. «Nella nostra tribù non si discute ormai d’altro che di razzi teleguidati, e intanto continuiamo ad andare armati di rozze asce e lance e cerbottane». Sostituiamo razzi teleguidati con droni e questa di Calvino diventa una precisa fotografia del nostro tempo. Quei razzi che, negli anni 50, volano sempre più in alto, obbedienti ai comandi degli ingegneri, sembrano non modificare di una virgola la realtà sociale. “La tribù con gli occhi al cielo” non sarà pubblicato. Perché intanto arriva il 4 ottobre 1957 e l’Unione Sovietica con il più potente di quei razzi invia una sonda, lo Sputnik 1, oltre l’atmosfera terrestre a girare altissimo intorno al pianeta lungo un’orbita ellittica a una distanza variabile tra i 228 e 947 chilometri. Per 57 giorni la Terra ha una nuova luna. Un satellite artificiale. Il lancio dello Sputnik modifica la scena. Calvino si rende conto non solo che il suo racconto “La tribù con gli occhi al cielo” è diventato ipso facto obsoleto. Ma che le carte sulla tavola della realtà planetaria sono completamente cambiate.

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