Aumentano gli attacchi e le modalità sono sempre meno controllabili. La macchina della prevenzione segna il passo. Lo 007: «Dobbiamo capire quanto siamo disposti a rinunciare alla nostre libertà»

L’Europa ricorderà questo 2016 per il crescente numero di attentati terroristici di matrice islamica. Ma anche per l’enorme difficoltà con cui le forze di sicurezza affrontano gli attacchi. Già lo scorso anno l’aumento degli attentati è stato impressionante: hanno provocato 130 morti e 368 feriti, cifre mai registrate prima che hanno chiamato in causa l’intelligence e la macchina della prevenzione, evidentemente messe in difficoltà da un modus operandi molto simile a quello dei gruppi jihadisti, al-Qaeda prima e Daesh poi, in Medio Oriente. «Se andiamo ad analizzare le modalità, gli obiettivi scelti, il numero di membri del commando e l’impatto ottenuto, nel novembre scorso a Parigi gli attentatori suicidi hanno messo in campo per la prima volta in uno Stato dell’Ue tattiche simili a quelle che si sono viste in episodi analoghi avvenuti fuori dall’Europa, come ad esempio quello di Mumbai», spiega a Left un agente dell’intelligence che non può rivelare il suo nome, esperto del terrorismo di matrice islamica, a lungo membro della super polizia europea Europol. Lo 007 si riferisce ai 10 attacchi terroristici avvenuti simultaneamente il 26 novembre 2008 in altrettante zone di Mumbai, centro finanziario dell’India, provocando 195 vittime (c’era anche l’italiano Antonio Di Lorenzo) e circa 300 feriti, tra i quali 22 stranieri. Di questa possibilità parlava già un’allerta americana dell’estate 2010: un jihadista tedesco (vedi box nelle pagine che seguono) aveva rivelato alla Cia la preparazione di una serie di attacchi coordinati negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Francia e Germania. Altra notevole differenza, il fatto che gli autori «non erano mai stati in una zona di guerra» riprende l’agente. «Pur avendo in alcuni casi mostrato la volontà di farlo, non si erano addestrati nei campi dei jihadisti, coi quali spesso non avevano nemmeno legami diretti, ma erano già noti e attenzionati dalle forze dell’ordine, tanto che a qualcuno era persino stato ritirato il passaporto per impedirgli di viaggiare».
I quattro attentati terroristici che si sono verificati negli ultimi mesi – Orlando (Stati Uniti), Magnaville, Nizza e Rouen (Francia) e Wurzburg (Germania) – evidenziano inoltre le difficoltà operative delle intelligence nell’evitare attacchi compiuti dai cosiddetti “lupi solitari”. Al-Qaeda e il Daesh hanno ripetutamente invitato, tramite documenti e messaggi pubblicati online, i musulmani che vivono nei Paesi occidentali a perpetrare attacchi nei loro luoghi di residenza. Ai videoclip di indottrinamento religioso o che mostrano le vittorie militari del gruppo in Medio Oriente, si sono così aggiunti i tutorial su come creare in casa bombe o cinture esplosive. Essendo rivolti ai giovani, più facilmente influenzabili, sono realizzati come trailer di film d’azione o videogiochi. Anche il lessico adoperato è stato appositamente studiato. Dal momento che l’Islam vieta rigorosamente l’uccisione di altri musulmani, in assenza della condanna di un tribunale, i gruppi terroristici giustificano la violenza dividendo il mondo in credenti e non credenti, amici e nemici. Nella loro interpretazione, i nemici che meritano di essere uccisi in difesa dell’Islam sono tutti coloro che lottano contro la comunità dei credenti (la Umma) o aggrediscono la casa di tutti i musulmani (il Califfato). In questi video i leader del Daesh aggiungono che per non essere Mustad (apostati), i musulmani che vivono in Occidente hanno soltanto due opzioni se vogliono andare in paradiso e trovare le 72 vergini promesse: migrare nel territorio dello Stato islamico o effettuare un attacco terroristico nei loro luoghi di residenza. Molti stanno scegliendo questa nuova, seconda opzione che gli viene data. Fethi Benslama è uno psicanalista, specialista del radicalismo musulmano, autore di numerosi libri in cui analizza le problematiche storico-psicologiche dell’Islam. A suo parere alla base di tutto c’è la cosiddetta sindrome di Cotard: «Nella loro vita è successo qualcosa che ha creato un vuoto e ora non sanno più come continuare a vivere. Alcuni provano pure a rimettere insieme i pezzi, senza riuscirci. Il radicalismo va considerato come una soluzione possibile tra tante altre. Queste persone, capaci di tutto, sono già morte», ha recentemente spiegato a un documentarista francese in I soldati di Allah.

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