Questa storia potremmo titolarla "Tre sovrappesi e due misure". Dunque, un titolo su tre arciere «cicciottelle» è costato il posto da direttore del Quotidiano sportivo a un giornalista del gruppo Riffeser Monti, editore del Qn, il Quotidiano nazionale (dorso che contiene tre testate storiche come Nazione, Giorno e Resto del Carlino più, appunto, il Quotidiano sportivo). A prima vista sembra una buona notizia. E in parte lo è in un Paese dove troppa gente crede che le sole colpe di Berlusconi siano la sua statura e il parrucchino, che l'unica dote di Mara Carfagna o di Laura Boldrini siano le misure e che di Andreotti si ricorda solo la gobba. È l'ossessione per il corpo delle donne che accomuna fondamentalisti di ogni religione e consumisti compulsivi. Però, i difetti fisici, ammesso che siano tali, come pure i pregi, sono le uniche cose che non dipendono da chi se li trascina dietro. Nessuno, tuttavia, immagina che si tratti di un sussulto progressita per una testata che non ne ha mai avuti nella sua lunga storia. Uno sguardo più lungo si accorge che quello inciampato sulle «cicciottelle» è lo stesso giornale che il 9 luglio, solo un mese prima del titolo canaglia, scriveva in un editoriale: «È stata solo una rissa. Una rissa finita male. Una rissa innescata da una battuta idiota, come quasi tutte le risse. Se ne consumano a centinaia ogni giorno. Nelle discoteche, quando un approccio giudicato troppo diretto o volgare viene sanato a pugni da un maschio orgoglioso che nel difendere la “propria” ragazza in realtà difende narcisisticamente la propria, incerta, virilità». Si tratta del commento di Andrea Cangini, direttore di QN-il Resto del Carlino, a proposito dell'omicidio a sfondo razzista di Emmanuel Chidi Namdi a Fermo. Ma quel direttore è saldamente al suo posto sebbene il Coordinamento dei Cdr di tutte le testate del Qn abbia preso pubblicamente le distanze dall'editoriale: «Ci dispiace, ma noi pensiamo che il razzismo sia la sovrastruttura per eccellenza e che il ruolo di un quotidiano che si definisce Nazionale debba essere di indirizzo, di educazione, di aiuto alla conoscenza vera dei problemi e di ferma, immediata, condanna di ogni forma di razzismo. Questo editoriale non l’ha fatto». Qual è la differenza tra le due vicende? Nessuna. In entrambi i casi l'editore ha inseguito il senso comune più becero, ha parlato alla pancia (come si usa dire) di un Paese ossessionato dal corpo delle donne così come è preda di ossessioni securitarie. Nelle ore successive al titolo infelice, il brand del Resto del Carlino è precipitato nelle recensioni dei lettori su facebook. Non succede altrettanto quando costruisce "castelli di scabbia" e le voglie di ronde contro i migranti, i profughi, i rifugiati, gli stranieri; quando consente di dire a un leghista marchigiano (Roberto Zaffini, consigliere regionale e parlamentare) che «personalmente manderei in galera un napoletano su due»; quando regala titoloni a sei colonne al leader di quel sindacato di poliziotti che tributò una standing ovation ai quatto uccisori di Federico Aldrovandi. Il papà di Federico Aldrovandi ha curato per anni una corposissima rassegna stampa in cui spicca il Qn quasi come organo ufficiale del "partito del malore" la cui tesi fondante era che i quattro agenti s'erano avvicinati al diciottenne per aiutarlo. Il 15 gennaio, dopo che Liberazione, allora quotidiano di Rifondazione, aveva contribuito a scoperchiare il caso, un corsivo in prima pagina si scagliava contro quel giornalista venuto da Roma: «Non crediamo in ogni caso di poter prendere lezioni da coloro che parlando delle forze dell'ordine distinguono tra "polizia democratica" e non, usando un linguaggio (e il linguaggio conta) da anni Sessanta». Forse volevano dire da anni 70 (chi osa dubitare della polizia dev'essere sicuramente un mezzo terrorista) ma non conta. Senza risalire per forza all'11 ottobre del 1944, quando il Carlino negava fosse avvenuta la strage di Marzabotto («una nuova manovra dei soliti incoscienti destinata a cadere nel ridicolo»), un rapido giro del web (ad esempio tra le "Cronache di ordinario razzismo" di Lunaria o l'attentissimo sito occhioaimedia.org visto che l'archivio del Qn non è di facilissimo accesso) rivela, invece, uno strato di articoli e titoli (soprattutto) considerati dagli osservatori sui diritti civili come sessisti, xenofobi, omofobi e contro ogni forma di espressione di progressismo, dalle rivendicazioni studentesche a quelle antifasciste o per i beni comuni al punto da far dire a un collettivo di studenti bolognesi, già nel 2009, che quel giornale è «ansioso solo di aizzare i benpensanti contro ogni forma di protesta sociale mentre i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri: un giornale che va, da sempre, dove tira il vento. E in questo Paese tira un brutto vento, un vento autoritario, razzista e sessista».

Questa storia potremmo titolarla “Tre sovrappesi e due misure”. Dunque, un titolo su tre arciere «cicciottelle» è costato il posto da direttore del Quotidiano sportivo a un giornalista del gruppo Riffeser Monti, editore del Qn, il Quotidiano nazionale (dorso che contiene tre testate storiche come Nazione, Giorno e Resto del Carlino più, appunto, il Quotidiano sportivo).

A prima vista sembra una buona notizia. E in parte lo è in un Paese dove troppa gente crede che le sole colpe di Berlusconi siano la sua statura e il parrucchino, che l’unica dote di Mara Carfagna o di Laura Boldrini siano le misure e che di Andreotti si ricorda solo la gobba. È l’ossessione per il corpo delle donne che accomuna fondamentalisti di ogni religione e consumisti compulsivi. Però, i difetti fisici, ammesso che siano tali, come pure i pregi, sono le uniche cose che non dipendono da chi se li trascina dietro.

Nessuno, tuttavia, immagina che si tratti di un sussulto progressita per una testata che non ne ha mai avuti nella sua lunga storia. Uno sguardo più lungo si accorge che quello inciampato sulle «cicciottelle» è lo stesso giornale che il 9 luglio, solo un mese prima del titolo canaglia, scriveva in un editoriale: «È stata solo una rissa. Una rissa finita male. Una rissa innescata da una battuta idiota, come quasi tutte le risse. Se ne consumano a centinaia ogni giorno. Nelle discoteche, quando un approccio giudicato troppo diretto o volgare viene sanato a pugni da un maschio orgoglioso che nel difendere la “propria” ragazza in realtà difende narcisisticamente la propria, incerta, virilità». Si tratta del commento di Andrea Cangini, direttore di QN-il Resto del Carlino, a proposito dell’omicidio a sfondo razzista di Emmanuel Chidi Namdi a Fermo.

Ma quel direttore è saldamente al suo posto sebbene il Coordinamento dei Cdr di tutte le testate del Qn abbia preso pubblicamente le distanze dall’editoriale: «Ci dispiace, ma noi pensiamo che il razzismo sia la sovrastruttura per eccellenza e che il ruolo di un quotidiano che si definisce Nazionale debba essere di indirizzo, di educazione, di aiuto alla conoscenza vera dei problemi e di ferma, immediata, condanna di ogni forma di razzismo. Questo editoriale non l’ha fatto».

Qual è la differenza tra le due vicende? Nessuna. In entrambi i casi l’editore ha inseguito il senso comune più becero, ha parlato alla pancia (come si usa dire) di un Paese ossessionato dal corpo delle donne così come è preda di ossessioni securitarie. Nelle ore successive al titolo infelice, il brand del Resto del Carlino è precipitato nelle recensioni dei lettori su facebook. Non succede altrettanto quando costruisce “castelli di scabbia” e le voglie di ronde contro i migranti, i profughi, i rifugiati, gli stranieri; quando consente di dire a un leghista marchigiano (Roberto Zaffini, consigliere regionale e parlamentare) che «personalmente manderei in galera un napoletano su due»; quando regala titoloni a sei colonne al leader di quel sindacato di poliziotti che tributò una standing ovation ai quatto uccisori di Federico Aldrovandi.

Il papà di Federico Aldrovandi ha curato per anni una corposissima rassegna stampa in cui spicca il Qn quasi come organo ufficiale del “partito del malore” la cui tesi fondante era che i quattro agenti s’erano avvicinati al diciottenne per aiutarlo. Il 15 gennaio, dopo che Liberazione, allora quotidiano di Rifondazione, aveva contribuito a scoperchiare il caso, un corsivo in prima pagina si scagliava contro quel giornalista venuto da Roma: «Non crediamo in ogni caso di poter prendere lezioni da coloro che parlando delle forze dell’ordine distinguono tra “polizia democratica” e non, usando un linguaggio (e il linguaggio conta) da anni Sessanta». Forse volevano dire da anni 70 (chi osa dubitare della polizia dev’essere sicuramente un mezzo terrorista) ma non conta.

Senza risalire per forza all’11 ottobre del 1944, quando il Carlino negava fosse avvenuta la strage di Marzabotto («una nuova manovra dei soliti incoscienti destinata a cadere nel ridicolo»), un rapido giro del web (ad esempio tra le “Cronache di ordinario razzismo” di Lunaria o l’attentissimo sito occhioaimedia.org visto che l’archivio del Qn non è di facilissimo accesso) rivela, invece, uno strato di articoli e titoli (soprattutto) considerati dagli osservatori sui diritti civili come sessisti, xenofobi, omofobi e contro ogni forma di espressione di progressismo, dalle rivendicazioni studentesche a quelle antifasciste o per i beni comuni al punto da far dire a un collettivo di studenti bolognesi, già nel 2009, che quel giornale è «ansioso solo di aizzare i benpensanti contro ogni forma di protesta sociale mentre i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri: un giornale che va, da sempre, dove tira il vento. E in questo Paese tira un brutto vento, un vento autoritario, razzista e sessista».