In questi giorni con la cacciata degli uomini di Daesh da Sirte e la diffusione di un documento classificato come "segreto" redatto dal Cofs (Comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali) dove si ammette ufficialmente lo stanziamento di forze speciali italiane in Libia, si ritorna a parlare di un possibile intervento italiano nel Paese

In questi giorni con la cacciata degli uomini di Daesh da Sirte e la diffusione di un documento classificato come “segreto” redatto dal Cofs (Comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali) dove si ammette ufficialmente lo stanziamento di forze speciali italiane in Libia, si ritorna a parlare di un possibile intervento italiano nel Paese precipitato nella guerra civile dopo la caduta di Gheddafi e minacciato dall’avanzata del terrorismo islamico.
Ripubblichiamo un articolo di Alessandro De Pascale comparso a Marzo ( quando Huffington Post riprendendo il Corriere della Sera titolava: «Libia, Italia pronta a prendere la guida della missione in 7 giorni» ndr ) sul Left n. 11 che aiuta ad avere un quadro più chiaro della situazione.

La situazione sul terreno libico è in continua evoluzione. Ora anche il governo di Tripoli, il più islamista dei due, va a caccia dei jihadisti del Daesh e senza andare troppo per il sottile. Persino i due nostri connazionali uccisi in circostanze non ancora chiare, Fausto Piana e Salvatore Failla, sarebbero stati inizialmente esposti in pubblico dalle forze di sicurezza libiche della Tripolitania. La loro carnagione era troppo chiara persino per dei siriani e quindi hanno pensato si trattasse di combattenti dell’autoproclamato Califfo, essendo in viaggio su un loro convoglio.

Il mutato atteggiamento dell’esecutivo di Tripoli, quello delle milizie islamiste legate alla Fratellanza musulmana che controlla la Tripolitania a nord-ovest andrebbe ricondotto proprio al voler evitare l’intervento militare internazionale su larga scala. Nella loro area si trova anche la città di Sabrata, luogo di prigionia dei quattro italiani rapiti (gli altri si sarebbero liberati da soli, il giorno dopo la morte dei loro compagni). Il secondo governo, quello di Tobruk guidato da Abdullah Al Thinni, può contare a est (in Cirenaica) sulle forze della rinnovata “operation Dignity” di Khalifa Belqasim Haftar, un ex generale di Gheddafi, con un passato negli Stati Uniti, vicino all’Egitto e quindi da tempo contro il Daesh. Ora che entrambi i governi sono ufficialmente in campo contro i jihadisti, sarà più difficile che una volta riuniti – se mai avverrà – chiedano un intervento straniero.

La posizione ufficiale dell’Italia è sempre stata quella di voler favorire una mediazione tra i diversi gruppi e un accordo politico tra le parti per la formazione di un governo di unità nazionale, come pre-condizione per un’azione sul terreno. Il tutto in una Libia ormai divisa in due, se non addirittura di più, nel pieno della seconda guerra civile dopo quella che nel 2011 ha portato alla caduta del colonnello Muhammad Gheddafi. Una situazione aggravata, anche se potrà sembrare paradossale, da tre elezioni avvenute in un breve arco temporale che hanno contribuito a dividere un Paese formato da 140 tribù. Non per niente già la cosiddetta “rivoluzione libica”, una rivolta armata (peraltro appoggiata dall’esterno con i raid aerei occidentali), fin dall’inizio sembrava anche un regolamento di conti. Gli interessi in gioco, del resto sono tanti. Stiamo sempre parlando di una nazione molto ricca, che galleggia sull’acqua e soprattutto sul petrolio, le cui riserve sono tra le più importanti di tutta l’Afri- ca se non anche dell’Asia.

Prima della guerra «i libici stavano bene, avevano un reddito pro capite che si avvicinava a quello degli europei, che era 4-5 volte più importante addirittura del reddito sudafricano. Era un Paese felice, ricco e naturalmente importante», ha ricordato lo storico Angelo Del Boca, primo studioso italiano a denunciare documenti alla mano le atrocità compiute dalle truppe italiane in Libia e in Etiopia durante il fascismo. La Tavola per la pace, alla quale aderiscono centinaia di associazioni, organismi laici e religiosi, enti locali di tutte le regioni italiane, si è rivolta a lui per dire senza giri di parole che «un’altra guerra in Libia non risolverà i problemi».

A Udine ha inoltre presentato un dossier realizzato da un gruppo di ricercatori, studiosi e giornalisti con una lunga esperienza in Libia, che alla luce degli ultimi avvenimenti afferma che «non ci sono le condizioni, politiche e militari, per un intervento dagli obiettivi confusi» e che, come dice anche lo stesso Del Boca, questo richiederebbe l’impegno di «almeno 300mila soldati». A suo dire «l’unica cosa che può fare oggi l’Italia in Libia è aiutare a creare un esercito nazionale e una polizia nazionale, perché la guerra, se la devono fare, la devono fare i libici, non gli italiani o gli stranieri». I piani militari sono ormai pronti da tempo. Un militare dei paracadutisti della Folgore, di stanza a Livorno, ci rivela che l’allerta è già arrivata.

L’addestramento Nato svoltosi in Spagna nei mesi di ottobre e novembre 2015, il più imponente dopo la Guerra fredda, con oltre 30.000 soldati provenienti da 30 Paesi, sarebbe inoltre stato finalizzato anche ad un eventuale intervento in Libia. Infine, il Genio guastatori sarebbe già in campo per preparare il terreno. Fonti libiche confermano da settimane la presenza di italiani nel Paese.
Il già citato documento della Tavola della Pace analizza tre punti chiave. Il primo è lo scenario. Se l’obiettivo dichiarato è stabilizzare la Libia per mettere in sicurezza le aree petrolifere e controlla- re il flusso dei migranti, serve un governo in grado unire le varie fazioni, che per ora esiste solo sulla carta.

A questo si aggiunge il problema del consenso dell’opinione pubblica locale in caso di intervento esterno. Questo potrebbe poi scatenare dinamiche politico-militari anche nei Paesi limitrofi alle prese col terrorismo insurrezionale (come Tunisia, Egitto e Algeria) e favorire una unione delle milizie libiche ma solo contro lo straniero. Mentre il Daesh, per lo stesso motivo, continuerebbe invece a proliferare arruolando nuovi jihadisti. Il secondo punto è che non sono chiari il ruolo e il coinvolgimento dei Paesi partner (in termini di uomini e catena di comando) e delle organizzazioni internazionali e regionali, oltre a tempi e costi – anche in termini di vittime – di un’operazione che rischia di essere di medio-lungo periodo.

Paesi questi ultimi, ricorda inoltre il dossier, peraltro dentro la filiera del commercio delle armi. Infine, un altro interrogativo riguarda le alleanze internazionali, fluttuanti, con obiettivi differenti e un diverso rapporto con la Libia. Il governo di Matteo Renzi riuscirà a dare risposte a questi dubbi? Dopo la morte di Failla e Piano, il premier assi- cura che non ci porterà in guerra senza una decisione esplicita del Parlamento e critica l’ambasciatore americano che aveva parlato di 5mila soldati italiani già pronti a partire per la Libia. Il presidente del Consiglio dovrebbe tuttavia chiarire perché la ministra della difesa Pinotti, con numerose interviste e fluttuanti allusioni, era sembrata prima negare e poi autorizzare la stampa a dare per scontata la nostra partecipazione all’impresa libica, con 5mila soldati che si sarebbero dovuti muovere sotto l’egida dei servizi di sicurezza e in base a un decreto (il cui testo è segreto) emesso dal governo “in attuazione” del Parlamento sul finanziamento delle missioni all’estero. Non si scherza con la guerra.