Raccontano la violenza ma la loro sfida è farlo senza lasciarsi immobilizzare dalla paura. Le loro narrazioni sono piene di vita e resistenza, «altrimenti», dicono, «ti lasci sopraffare da quello che ti circonda»

Che sia chiaro: il Messico non è il Paese turistico della pubblicità, ne quello decritto nei discorsi ufficiali. Qualche esempio, fra i piú recenti: i 43 studenti scomparsi di Ayotzinapa, gli omicidi di civili commessi dai militari in Tlatlaya, gli abusi contro i migranti che arrivano dall’America centrale per raggiungere gli Usa, il ritrovamento di fosse comuni in tutto il Paese. Tutte storie del Messico di oggi che per essere raccontate hanno bisogno di giornalisti, ma questi giornalisti sono in pericolo». Elia Baltazar è una delle migliori croniste messicane. Se vuoi conoscere le vene aperte di Città del Messico, devi attraversarla con lei. Non a caso è tra le fondatrici del gruppo Periodistas de a pié, giornaliste a piedi.
Quando sei dentro una guerra civile non dichiarata e rischi di ritenerla normale, devi inventarti nuovi strumenti per non soccombere. «Nel 2006 inizia ad aumentare la violenza. Al principio non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo, ma intuivamo che tutto cambiava e rapidamente», ci racconta Elia. Il 2006 è l’anno in cui viene lanciato il Plan México, un programma di 400 milioni di dollari tra Usa e Messico, una dichiarazione di guerra al narcotraffico che ha prodotto piú di 22mila desaparecidos e 70mila morti, tutti civili, tra 2006 e 2012. In una lista a parte vanno registrati i giornalisti uccisi o fatti scomparire. Solo nel 2015 sono state 326 le aggressioni , una ogni 26,7 ore.
In questo scenario di cambiamento «la prima cosa che abbiamo deciso di fare come giornaliste è stato un esercizio di autocritica, domandandoci se stavamo facendo bene il nostro lavoro nei giornali in cui ognuna di noi lavorava per portare in primo piano i temi emergenti». Elia Baltazar si è posta queste domande insieme ad altre colleghe che vivono e lavorano a Città del Messico: Marcela Turati, Margarita Torres, Daniela Pastrana, Daniela Rea, Verónica García de León, Tere Juárez, Mónica González, Celia Guerrero. Ognuna di loro, dal proprio giornale-frontiera, scrive ma non parla delle vittime, lascia che siano le vittime a parlare. In una guerra civile non dichiarata la loro realtá deve essere filtrata, manipolata, diluita. Las periodistas de a pié rompono il gioco retorico e mettono le parole delle vittime in primo piano. Ma le storie non bastano. Analizzano dati e cercano di produrre quelli che non ci sono, perché «i dati – dicono – sono un arma politica». Investigano laddove è più difficile guardare: scomparse, femminicidi, torture, aggressioni. Producono prove e raccontano per non cancellare

Questo articolo continua su Left in edicola dal 13 agosto

 

SOMMARIO ACQUISTA