Il premio Nobel Orhan Pamuk parla del suo ultimo romanzo La stanezza che ho nella testa e della stretta autoritaria in Turchia

Quando nel nuovo romanzo del premio Nobel Orhan Pamuk, La stranezza che ho nella testa (Einaudi) un avvocato di Ankara chiede ad un tassista cosa pensa dei Curdi, lui ne dice il peggio possibile. Ma quando quell’avvocato dice di essere venuto ad Istanbul «per difendere coloro che sono stati torturati in prigione, che sono stati dati in pasto ai cani solo perché parlano curdo», il tassista si rimangia tutto. Di primo acchito aveva negato ciò che pensava davvero. «È un aneddoto che illustra bene quanto sia repressiva la cultura politica in Turchia» racconta Pamuk, accogliendoci nella sala da tè di uno storico Hotel degli artisti in centro a Roma.

«Mostra l’eterogenesi dei fini, pensare una cosa e farne un’altra. Desiderare una ragazza e sposarne un’altra, come accade al protagonista di questo libro, Mevlut. È un punto chiave estetico e filosofico del romanzo. Scusandomi con i lettori turchi che hanno sentito questa storia molte di volte ce l’ho ripresa proprio per questo».
Il leader degli avvocati curdi Tahir Elci è stato ucciso Diyarbakir. La bomba esplosa vicino alla metro ci fa capire che anche nella cosmopolita e libera Istanbul qualcosa sta cambiando drammaticamente.
È una città cosmopolita e lo sta diventando perfino di più. Se vai nella strada principale di Beyoğlu non c’è un turco, sono tutti turisti, specie in estate. Ma se per cosmopolita intendiamo dire tollerante, penso che oggi non lo sia affatto. C’è un forte nazionalismo che si sente ancor più in campagna, nelle regioni interne. Parlando di quanto è accaduto alla metro, purtroppo, come Mevlut, di bombe ne abbiamo viste tante. In particolare negli anni 70, da cui prende le mosse questa vicenda. Allora c’era una sorta di guerra fredda fra destra e sinistra. E in quel terribile contesto sparavano e la gente moriva per le strade di Istanbul.

Mevlut non esprime idee politiche, ma si rende conto che l’amico Ferhat, curdo e di sinistra, «con l’aumento dei voti dei partiti religiosi era sempre più irrequieto e spaventato».
Ferhat appartiene a una minoranza sotto un duplice aspetto: è un comunista curdo e alevita. Come il leader dell’opposizione curda. Sono posizioni diffuse in Turchia. È vero il suo miglior amico è un radical. Ma i suoi cugini sono nazionalisti di destra. Mevlut è l’uomo della strada, non esprime forti opinioni politiche anche perché è un venditore ambulante di boza. Se prendesse posizione, se lottasse per le sue idee, non potrebbe sopravvivere economicamente. Mevlut vuole essere più vicino a Ferhat umanamente ma – ironia della sorte – lui si mette con Samiha, la donna che Mevlut desiderava e che anni prima aveva rapito, scoprendo poi di essere fuggito con la sorella. Non solo. Per quanto Ferhat detesti i cugini filo-fascisti loro lo aiutano per tutto il tempo.

Il libro vive in una polifonia di voci da cui emerge un quadro politico assai complesso. Quanto pesa oggi la stretta anti democratica e la censura imposta da Erdogan?
La situazione dei giornali in Turchia è molto difficile. Il direttore di Cumhuriyet, il mio amico Can Dundar, è in prigione. È uno scandalo che un direttore di giornale, qualunque cosa abbia detto per dispiacere al governo, sia per questo in carcere. La libertà di parola viene tarpata. Non è un bene per il futuro della Turchia. I leader europei stringono la mano al nostro primo ministro perché gli permette di usare le basi contro l’Isis, bene. Ma dovrebbero prestare attenzione anche al venir meno della libertà di parola in Turchia.

Questo romanzo è anche sua riflessione letteraria sull’amore. Centrato su due immagini femminili, una reale, l’altra ideale. Ne il mio nome è rosso, il pittore di miniature si innamorava di una misteriosa immagine di donna, intravista ad una finestra, cercandola poi per tutta la vita. È un tema che torna nel Museo dell’innocenza. Una sorta di filo rosso?
La stranezza che ho nella testa, sì è un romanzo tratta d’amore. Ma ci sono due diversi aspetti. C’è l’amore romantico e ci sono i matrimoni combinati, che secondo statistiche sono più del 50 per cento in Turchia. Ma c’è, insopprimibile, l’esigenza di un rapporto che susciti forti emozioni, allora come fai? Fai come Mevlut, che ha visto per tre secondi una ragazza e passa tre anni a scrivere poesie d’amore. Siamo in piena poesia romantica. Vedi una ragazza da lontano e quell’immagine diventa fonte di versi come quelli di William Wordsworth, da che mi ha ispirato il titolo di questo romanzo. Nella società islamica in cui donne e uomini non hanno la possibilità di incontrarsi da soli, e tanto meno di fare l’amore prima del matrimonio, tutto questo immaginario cresce, si espande, ci si concentra sull’ideale. Tutta la poesia ottomana è centrata su un’immagine di donna ideale. Molti sono i componimentiin cui l’autore parla degli occhi dell’amata. Un gioco di immagini che nasce dalla realtà: gli occhi sono tutto ciò che vedi di una donna velata. Qui mi avvicino al tema quasi da antropologo, raccontando come si vive l’amore, ma nel romanzo non c’è solo questo. Anche se Mevlut non intendeva rapire Rayiha, ma Samiha, il loro matrimonio sarà piuttosto felice, fra loro si sviluppa una complicità quotidiana. Lui non lavora in fabbrica, ma vende cibo che lei cucina. L’ho ricavato dalle testimonianze che ho raccolto per sei anni a Istanbul.

Alla fine, però, Rayiha si suicida, cercando di abortire in modo clandestino.
Succede qui qualcosa di analogo a quanto accade alla giovane Füsun, ne Il museo dell’Innocenza. È suicidio oppure è un incidente? Rayiha si uccide o è vittima dell’ignoranza? Quello che voglio dire è che purtroppo è facile morire cercando di abortire in casa. Rayaha è una donna vitale, forse è vittima delle condizioni sociali. Preferisco lasciare al lettore e alla lettrice la decisione.
Di fatto Mevlut distrugge quell’immagine ideale che le aveva dato raccontando che quelle lettere erano per lei?
Mevlut avrebbe di ché difendersi da questa accusa! Qui emergono gli aspetti interiori, più nascosti, dei personaggi. Lui continua a sostenere in lei la convinzione che quelle lettere la riguardano. Ecco il gioco: continuare ad aprire nuove porte sulle motivazioni dei personaggi. Siamo venuti a parlare dei meccanismi interni del romanzo, sono contento. Mi piace discuterne con i miei studenti alla Columbia University. Sono felice quando i lettori si interrogano su ciò che muove questo o quel personaggio, anche dopo anni. Le scelte di vita, forse, hanno sempre più di una motivazione.

Sull’Indice dei libri l’editor Francesco Guglieri ricorda che lei voleva fare il pittore da giovane. La sua scrittura è fortemente pittorica Questa volta è come «se avesse messo il cavalletto al livello della Istanbul più popolare». Che rapporto c’è fra immagine e letteratura ?
È un tema importante. Su cui ho anche tenutof un corso, partendo da Aristotele per arrivare a Nabokov. Rileggendo il rapporto storico fra le “arti sorelle”. La pittura, in estrema sintesi, cristallizza il tempo, mentre la narrazione ci immette nel flusso del tempo, ma entrambe cercano di toccare il cuore delle persone. Accetto il fatto di essere uno scrittore molto visivo, mi corrisponde. Penso che scrivere sia creare immagini e e suscitarne nella mente del lettore.
Dipinge ancora?
Sì ho ripreso a farlo, da otto anni a questa parte. Avevo “ucciso” il pittore in me come ho raccontato in Istanbul. Ma questa parte di me non era del tutto perduta. Un giorno, in America, sono entrato in un negozio e sono uscito con pacchi di colori, anche se non entrato con quella intenzione. Davvero non mi aspettavo di tornare a dipingere, ma ora ne sono felice Quando questo aspetto era sopito ho creato il Museo dell’innocenza che, se vogliamo, è un modesto esempio di arte contemporanea

Lei vive in una città dal passato millenario, che è ponte fra Oriente e Occidente. È stata Bisanzio, ha conosciuto l’iconoclastia, poi è diventata Costantinopoli. In Hagia Sofia, per esempio, la figura di una Madonna convive con l’arte ani-conica musulmana. I fondamentalisti dell’Isis non accettano questa coesistenza?
Io sono un cittadino di Istanbul, per tutta la mia vita ho vissuto fra i resti di Bisanzio, vedendo l’incontro fra elementi culturali dell’est, del sud, del nord… I miei romanzi intrecciano in modo secolarizzato temi mutuati dalla tradizione islamica e da altre tradizioni, in forme sperimentali e, in questo romanzo, più classiche, addirittura ispirate a Balzac e a Stendhal. Le opere più profonde sono quelle che nascono da incontri e convergenze nascoste. Imporre un solo modo, una sola idea, un sistema ideologico, una sola lingua, una religione è una forma di autoritarismo, che soffoca la varietà e appiattisce tutto. Io rifiuto completamente questo tipo di atteggiamento, sia che venga da religiosi islamici o di altra religione, sia che venga da militaristi di governi solo apparentemente secolarizzati, ma di fatto uguali a quelli di tanti anni fa. I fanatici non fanno altro che distruggere la nostra cultura. Amo la complessità. Mi piace quando al primo sguardo rimango stupito e e mi chiedo cos’è questo? Quanto ai miliziani dell’Isis sono orribili terroristi. Che siano musulmani, cristiani indù o altro i terroristi sono sempre terroristi e dobbiamo rifiutare e opporci alla loro violenza.

Si è opposto alla distruzione del sito archeologico di Palmira Khaled al-Asaad, ucciso la scorsa estate dai fondamentalisti.Molti archeologi rischiamo la vita in Siria, in Iraq e in altri luoghi per difendere resti di civiltà passate. Che cosa ne pensa?
Quell’archeologo siriano mi ha fatto pensare a quel che accadde in Germania prima del 1944 e ai partigiani che hanno rischiato la vita per opere che sono patrimonio dell’umanità. Per lui non erano solo rovine del passato, erano la sua vita. Erano la sua lingua, memoria di civiltà antiche. Nel caso di Palmira, l’Isis non vuole solo distruggere, ma vendere i reperti ai musei occidentali per fare soldi. Rapiscono le persone anche per ottenere i soldi del riscatto. Quanto al ptrimonio d’arte alla fine mi viene quasi da pensare che sia un bene che i musei comprino quei reperti trafugati, almeno qualcosa si salva.

Istanbul è una città ricchissima di tracce vive del passato. Ne determinano fortemente l’atmosfera, ne esprimono il “genius loci”.
Sì Istanbul è un organismo vivo, anche grazie a quelle, vestigia. Ci vivo da 63 anni ma devo ammettere che i cambiamenti degli ultimi 13 anni sono molto più forti di quelli accaduti nel corso di 50 anni. Parlo di una trasformazione rapida e a tratti inafferrabile. Il mio libro autobiografico Istanbul finisce nel 1973. Questo romanzo inizia più o meno intorno a quella data. Qui non c’è l’aspetto sottilmente malinconico (huzün) della città, ma l’aspetto vitale, di crescita, che al tempo stesso distrugge il passato.
Quando lei,a Istanbul, ideò il Museo della memoria disse di non sapere esattamente cosa stava facendo. E oggi?
Per continuare quel “gioco” mi viene da dire che quando un Jiinn entra nella tua testa, come accade agli artisti, non sai bene cosa stai realizzando. Fai senza sapere. Allora dicevo a me stesso magari tra cinque anni ne parlerò con i miei studenti alla Colombia. Ma se provi a spiegare, i Jiinn scappano. I miei Jiinn sono irrazionali.

Intervista pubblicata su Left numero 48, 12 dicembre 2015