«Il compito dell’Europa è rendere più bello il mondo», ha detto Renzi annunciando il summit di Ventotene con Merkel e Hollande. Inutile retorica che suonerebbe stantia persino ad Altiero Spinelli. Un bilancio dell’Unione

Il richiamo retorico dell’incontro organizzato da Matteo Renzi con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande a Ventotene («si torna a Ventotene per ripartire con l’Europa dei valori, della cultura», ha detto il premier italiano il mese scorso, aggiungendo che «il compito dell’Europa è quello di rendere più bello il mondo») forse suonerebbe stantio persino ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Nell’isola in cui erano confinati dal fascismo, i due intellettuali liberalsocialisti sognarono un’Europa molto diversa da quella attuale: mentre era in corso la guerra più sanguinosa tra le potenze del Vecchio Continente, con Italia e Germania guidate da dittatori imperialisti e sanguinari, Rossi e Spinelli individuarono nello Stato nazionale l’origine delle disgrazie dell’Europa. Solo uno Stato sovranazionale, sul modello degli Stati Uniti d’America, avrebbe potuto eliminare il rischio di nuovi conflitti, stabilendo una kantiana pace perpetua nel Continente, il progresso sociale e persino, scrivevano, il socialismo liberale e non marxista di cui erano seguaci.
Settant’anni di pace l’abbiamo conosciuti, una conquista straordinaria considerata la storia europea, sopravvissuta persino alla fine dell’equilibrio armato Usa-Urss, ma sul piano del progresso sociale l’Europa ha significato, soprattutto negli ultimi 8 anni, più passi indietro che in avanti. E di socialismo, ovviamente, nemmeno l’ombra.
Probabilmente non poteva che andare così, se guardiamo alle tappe del processo di integrazione, tutte dominate dall’economia: la Comunità del carbone e dell’Acciaio, quella dell’energia atomica, poi il mercato unico, la Cee, e infine l’euro. Persino la famigerata “Costituzione europea”, bocciata da diversi referendum e poi trasformatasi nel trattato di Lisbona, era in realtà un trattato volto principalmente a togliere agli Stati il potere di legiferare in materia economica. In questo lungo cammino di unione politica si è visto molto poco, o per meglio dire si è vista pochissima democrazia. Il Parlamento europeo, unica istituzione “federale” elettiva, è rimasto privo di veri poteri. Gli Stati hanno ceduto così sovranità a un ente sui generis, un po’ federazione, un po’ confederazione, un po’ semplice somma di accordi intergovernativi. Una cessione di potere che però non si è accompagnata a una cessione di responsabilità, cioè a un bilancio federale. Il risultato è che l’Unione è divenuta un ente sovrannazionale, dominato dal Paese più influente, che detta regole e prende decisioni che poi devono essere applicate dai singoli Stati. I governi hanno potuto così in larga parte liberarsi del peso dei propri stessi parlamenti, mettendoli di fronte a fatti compiuti e decisioni di fatto irrevocabili. “Ce lo chiede l’Europa” è diventata così la scusa più utilizzata dai governanti di qualsiasi colore per ridurre i diritti dei lavoratori e tagliare lo stato sociale, applicando il programma neoliberista dell’Unione su cui in verità nessuno ha mai votato. Non stupisce che i cittadini abbiano perso fiducia e ogni volta che qualche Paese ha deciso di sottoporre una decisione europea ai propri cittadini se l’è vista bocciare. La tappa più importante e deleteria di questo processo è stata, senza alcun dubbio, la moneta unica. Attraverso la cessione della sovranità monetaria gli Stati si sono legati da soli. E così, paradossalmente, quell’unione monetaria nata dall’esigenza francese di togliere alla Germania l’egemonia sulla politica monetaria europea attraverso il marco, è diventata uno degli strumenti in mano alla stessa Germania (con la complicità un po’ di tutti, va detto) per tenere al guinzaglio i riottosi, come accaduto nella vicenda greca. Che non venga in mente a nessuno di ribellarsi, altrimenti basta togliere liquidità alle banche per piegare anche il governo meno incline all’ubbidienza al credo delle “riforme strutturali”.

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