Le letture sui “ribelli di oggi” che vi abbiamo proposto a Ferragosto raccontano della necessità di uscire dagli schemi per provare a uscire dall’impasse. Se guardiamo - come facciamo in questo numero - alla nostra Europa, questa necessità diventa urgenza. Intanto perché, lo rivela un rapporto redatto da un organismo di valutazione indipendente del Fondo monetario internazionale, gli schemi su cui si basano le politiche monetarie europee sono truccati, al punto che nel chiuso delle loro stanze Fmi, Bce e Commissione hanno deciso di sacrificare i destini di un Paese - la Grecia - e dei suoi cittadini, pur di salvare le “loro” banche e la moneta unica. Quest’ultima, ha ribadito di recente il Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, porta con sé «un errore di fondo»: l’euro è nato senza che si pensassero, al contempo, istituzioni in grado di farlo funzionare. Ma Stiglitz ci racconta una ragione ancor più importante della crisi: «La struttura della zona euro, le sue regole e regolamenti, non sono stati progettati per promuovere la crescita, l’occupazione e la stabilità». E così se certi interventi hanno consentito agli Stati Uniti, ad esempio, di riportare l’occupazione nei ranghi fisiologici, in Europa questo non è accaduto e non potrà accadere perché le istituzioni che dovrebbero farlo non ne hanno la potestà. Nell’Eurozona - e in particolare in Germania - la “fede incrollabile nei mercati” consente solo di procedere per piccoli aggiustamenti lungo la strada dell’austerity. Per giunta continuando a dare la colpa alle vittime, ai Paesi forse già deboli ma di certo colpiti a morte dalle loro politiche. Una rivittimizzazione che ricorda le condotte di certi regimi sudamericani. Per questo vi accompagniamo noi a Ventotene, prima che le trombe della propaganda giunte al seguito di Renzi, Merkel e Hollande spaccino per “nuova” la loro idea di Europa dopo averle dato una mano di vernice. Se si vogliono scongiurare le mille possibili “exit” in agguato dopo quella britannica, servono schemi nuovi, priorità diverse. A una politica assente e rappresentativa di interessi particolari dobbiamo opporre - e ce ne sono i presupposti - una politica inclusiva, accogliente, in grado di valorizzare le differenze riducendo le disuguaglianze, di innovare pensiero e azione tenendo sempre al centro le persone. Perché, ad esempio, non “osare” decidendo di abbandonare le fonti fossili e puntare tutto su efficienza, sharing economy e sull’energia pulita, diffusa e distribuita grazie a reti intelligenti altamente tecnologiche? Questa è innovazione, è pensiero diverso, come lo sarebbe la sperimentazione di una diversa regolamentazione dell’orario di lavoro: se l’automazione espelle la manodopera, perché non cogliere l’opportunità e promuovere la qualità della vita riducendo il numero di ore lavorate? Diverso deve essere anche il pensiero per garantire l’accoglienza dei migranti in arrivo sulle nostre coste. Partono perché le loro terre sono depredate o martoriate da guerre anche nostre (è dall’Europa che si esportano le armi destinate ai Paesi orientali e alla Siria, per un business di un miliardo di euro in quattro anni). E quando arrivano possono rappresentare un’opportunità sotto molti aspetti: in Germania, per fermarci ai possibili vantaggi economici, la Bartelsmann foundation ha censito 1,3 milioni di posti di lavoro nati nel solo 2014 grazie a persone di origini straniere. Lavoro procurato, altro che rubato. Ecco perché, se si incide sulla forbice tra ricchissimi e poverissimi, questa e altre ipotesi di innovazione sono ancora percorribili. Certo, se questi traguardi non sono ancora stati raggiunti è sintomo che l’Europa ha perso la sua spinta propulsiva. Eppure l’Europa, intesa non come Unione europea ma come Stati Uniti in divenire, rappresentava l’avanguardia possibile, il traino per la conquista di nuovi diritti, il termine di paragone che sull’ambiente, sull’integrazione, sul welfare e su tanto altro ci costringeva ad essere migliori. Oggi il quadro è cambiato radicalmente. E la speranza resta aggrappata a una ritrovata centralità della politica. Se continuiamo a delegare a tecnici e commissari, o a metterci nelle mani di mercati e mercanti, si trasformerà in un incubo il sogno di Ventotene. «In quel luogo nacqui una seconda volta» ebbe a dire Spinelli prima di dar vita, nel confronto con altri, al Manifesto clandestino. Ecco, se come individui e come comunità politica fondiamo, insieme, la nostra rinascita su “nuovi mezzi e nuovi fini”, rinascerà l’Europa dei popoli. [su_divider text="In edicola" style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

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Le letture sui “ribelli di oggi” che vi abbiamo proposto a Ferragosto raccontano della necessità di uscire dagli schemi per provare a uscire dall’impasse. Se guardiamo – come facciamo in questo numero – alla nostra Europa, questa necessità diventa urgenza. Intanto perché, lo rivela un rapporto redatto da un organismo di valutazione indipendente del Fondo monetario internazionale, gli schemi su cui si basano le politiche monetarie europee sono truccati, al punto che nel chiuso delle loro stanze Fmi, Bce e Commissione hanno deciso di sacrificare i destini di un Paese – la Grecia – e dei suoi cittadini, pur di salvare le “loro” banche e la moneta unica. Quest’ultima, ha ribadito di recente il Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, porta con sé «un errore di fondo»: l’euro è nato senza che si pensassero, al contempo, istituzioni in grado di farlo funzionare.

Ma Stiglitz ci racconta una ragione ancor più importante della crisi: «La struttura della zona euro, le sue regole e regolamenti, non sono stati progettati per promuovere la crescita, l’occupazione e la stabilità». E così se certi interventi hanno consentito agli Stati Uniti, ad esempio, di riportare l’occupazione nei ranghi fisiologici, in Europa questo non è accaduto e non potrà accadere perché le istituzioni che dovrebbero farlo non ne hanno la potestà. Nell’Eurozona – e in particolare in Germania – la “fede incrollabile nei mercati” consente solo di procedere per piccoli aggiustamenti lungo la strada dell’austerity. Per giunta continuando a dare la colpa alle vittime, ai Paesi forse già deboli ma di certo colpiti a morte dalle loro politiche. Una rivittimizzazione che ricorda le condotte di certi regimi sudamericani.

Per questo vi accompagniamo noi a Ventotene, prima che le trombe della propaganda giunte al seguito di Renzi, Merkel e Hollande spaccino per “nuova” la loro idea di Europa dopo averle dato una mano di vernice. Se si vogliono scongiurare le mille possibili “exit” in agguato dopo quella britannica, servono schemi nuovi, priorità diverse. A una politica assente e rappresentativa di interessi particolari dobbiamo opporre – e ce ne sono i presupposti – una politica inclusiva, accogliente, in grado di valorizzare le differenze riducendo le disuguaglianze, di innovare pensiero e azione tenendo sempre al centro le persone. Perché, ad esempio, non “osare” decidendo di abbandonare le fonti fossili e puntare tutto su efficienza, sharing economy e sull’energia pulita, diffusa e distribuita grazie a reti intelligenti altamente tecnologiche? Questa è innovazione, è pensiero diverso, come lo sarebbe la sperimentazione di una diversa regolamentazione dell’orario di lavoro: se l’automazione espelle la manodopera, perché non cogliere l’opportunità e promuovere la qualità della vita riducendo il numero di ore lavorate?

Diverso deve essere anche il pensiero per garantire l’accoglienza dei migranti in arrivo sulle nostre coste. Partono perché le loro terre sono depredate o martoriate da guerre anche nostre (è dall’Europa che si esportano le armi destinate ai Paesi orientali e alla Siria, per un business di un miliardo di euro in quattro anni). E quando arrivano possono rappresentare un’opportunità sotto molti aspetti: in Germania, per fermarci ai possibili vantaggi economici, la Bartelsmann foundation ha censito 1,3 milioni di posti di lavoro nati nel solo 2014 grazie a persone di origini straniere. Lavoro procurato, altro che rubato.

Ecco perché, se si incide sulla forbice tra ricchissimi e poverissimi, questa e altre ipotesi di innovazione sono ancora percorribili. Certo, se questi traguardi non sono ancora stati raggiunti è sintomo che l’Europa ha perso la sua spinta propulsiva. Eppure l’Europa, intesa non come Unione europea ma come Stati Uniti in divenire, rappresentava l’avanguardia possibile, il traino per la conquista di nuovi diritti, il termine di paragone che sull’ambiente, sull’integrazione, sul welfare e su tanto altro ci costringeva ad essere migliori. Oggi il quadro è cambiato radicalmente. E la speranza resta aggrappata a una ritrovata centralità della politica. Se continuiamo a delegare a tecnici e commissari, o a metterci nelle mani di mercati e mercanti, si trasformerà in un incubo il sogno di Ventotene. «In quel luogo nacqui una seconda volta» ebbe a dire Spinelli prima di dar vita, nel confronto con altri, al Manifesto clandestino. Ecco, se come individui e come comunità politica fondiamo, insieme, la nostra rinascita su “nuovi mezzi e nuovi fini”, rinascerà l’Europa dei popoli.

Questo editoriale lo trovi su Left in edicola dal 20 agosto

 

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