Nuraxi Figus, a 60 km da Cagliari. L’ultima miniera di carbone, che chiuderà nel 2018, torna a nuova vita grazie alla sperimentazione in medicina e a laboratori sotterranei. Come quello per la cattura dell’anidride carbonica

Nel cuore della terra alla ricerca della “materia oscura”, gas rari utili per la medicina e la sperimentazione. La nuova sfida post mineraria della Sardegna comincia a mezzo chilometro di profondità. C’è un luogo nel Sulcis Iglesiente, dove la parola fine diventa inizio. E dove il patrimonio di conoscenza del passato, tra lotte operaie e tradizioni, si fonde con la tecnologia e la ricerca scientifica. Benvenuti a Nuraxi Figus, comune di Gonnesa a sessanta chilometri da Cagliari. Siamo a una manciata di chilometri dai nuraghi di Seruci e di Sirai, e dall’area industriale di Portovesme e dove sorge l’ultima miniera di carbone d’Italia. Nelle gallerie sotto il sito di Monte Sinni, gestito dalla società mineraria regionale Carbosulcis, si coltiva – cioè si taglia e estrae – il carbone che l’azienda vende alla vicina centrale Enel di Portovesme. Un lavoro che va calando e che terminerà nel 2018. Quando l’attività estrattiva cesserà, andrà a regime la nuova vita: la conversione di un presidio minerario importante che, come spiegano gli esperti, ha un potenziale di almeno altri 100 anni.

Già adesso la tecnologia è largamente presente nella miniera. La figura un po’ mitizzata e romantica dei minatori sporchi di carbone in viso, con piccone e pala intenti a caricare piccoli vagoni che si muovono su binari a centinaia di metri di profondità, non esiste. Così come compaiono solo nei racconti , o in qualche album fotografico degli anni 50, le immagini di lavoratori che si muovono sottoterra con candele a carburo in spazi stretti. Oggi le scene sono ben diverse. Raggiungere il sottosuolo e i 500 metri di profondità, che vuole dire 400 metri sotto il livello del mare, significa sottoporsi a dettagliati protocolli di sicurezza. Scarpe antinfortunistiche e casco sono obbligatori, così come il giubbetto e la cintura su cui si posiziona la batteria della lampada. La gabbia, un ascensore industriale che nell’arco di poche decine di secondi scivola nel sottosuolo, segna il passaggio dal mondo illuminato dal sole a quello delle lampade. Subito il caldo umido che si respira sta a certificare il cambiamento. Nelle gallerie, che si possono raggiungere anche attraverso una rampa camionabile lunga tre chilometri e cento metri, comanda la tecnologia. Alle pareti fasci di cavi collegano il sottosuolo e le aree di transito e lavoro con la superficie dove macchine all’avanguardia misurano costantemente qualità dell’aria captata dai sensori presenti accanto alle centine, gli archi di ferro che reggono le volte delle gallerie. Negli spazi illuminati si trovano anche i telefoni per comunicare con l’esterno giacché altre comunicazioni radio sono impossibili e la linea con il sottosuolo deve essere sempre libera: in superficie è necessario sapere chi si trova nelle gallerie. I cartelli con i protocolli di sicurezza ricordano che va misurata la saturazione dell’aria costantemente, che gli operai che entrano nelle zone di coltivazione non possono avere fiamme, strumenti elettrici o elettronici capaci di far scattare scintille e che è obbligatorio dotarsi dei respiratori di emergenza. La coltivazione del carbone avviene con strumenti tecnologicamente avanzati che scavano le pareti rocciose e inviano il carbone sui nastri trasportatori che poi lo spingono nelle aree di accumulo. Qui i mezzi meccanici caricano sui dumper che lungo le strade sotterranee arrivano in superficie. Una volta raggiunto l’esterno inizia il processo di pulizia, lavaggio e “abbancamento”, formando le diverse montagne nere presenti all’esterno.

Questa miniera, che vanta un giacimento dotato di riserve per un miliardo e mezzo di tonnellate di carbone sub bituminale e con capacità di 4200 calorie, gallerie percorribili con camion lunghe 15 chilometri, una discenderia camionabile che arriva sino a mezzo chilometro di profondità, quattro pozzi, è destinata a fermarsi. Nel 2018 la produzione di carbone dovrà cessare definitivamente. «È l’effetto di un negoziato tra Regione Governo e Unione europea – spiega Francesco Garau, segretario provinciale della Filctem Cgil – per evitare una procedura di infrazione. Il processo e piano di dismissione è stato avviato nel 2014 e dovrà essere completato nel 2027». Nell’agosto del 2012 proprio in questi pozzi i lavoratori hanno dato vita all’ultima rivolta sotto terra. Una protesta forte per salvare l’impianto da quella che allora era un’imminente chiusura. La protesta ha mantenuto in piedi la produzione per altri due anni e nel frattempo è iniziata la partita per il dopo miniera.

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