Nel 1946 a Santa Libera, in Piemonte, un gruppo di partigiani si ribellò all’amnistia voluta da Togliatti. «Non accettavano che la Resistenza diventasse parola vuota», dice Pino Tripodi, che ci ha scritto un libro. E ora racconta a Left la lezione che se trae oggi

Una resistenza nella Resistenza. Anzi, dopo la Resistenza. Dimenticata e senza la maiuscola. Eppure, ancora in grado di dire tanto su ciò che è stato e su ciò che è il nostro Paese. Il “gesto insurrezionale” dell’agosto 1946 a Santa Libera, piccola frazione tra le Langhe e il Monferrato, è al centro del libro di Pino Tripodi Per sempre partigiano (DeriveApprodi). L’idea di partenza era quella di un saggio che riconsegnasse ai suoi giusti meriti la figura di Giovanni “Primo” Rocca, comandante partigiano tra i più importanti e poi alla guida dell’insurrezione dell’agosto del 1946 scattata dopo il provvedimento d’amnistia emanato da Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia del governo di unità nazionale. Poi il saggio è diventato un romanzo: Left ne ha discusso con l’autore.

Giovanni "Primo" Rocca nell'illustrazione di Antonio Pronostico
Giovanni “Primo” Rocca

Quando e perché ha deciso di raccontare la storia prendendo le mosse proprio dalla figura di Giovanni “Primo” Rocca?
Alla casa editrice DeriveApprodi Claudio Solito – un grande amico vignaiolo con il quale ho condiviso l’esperienza di Criticalwine – aveva fatto pervenire un’intervista a “Primo” Rocca dell’Istituto storico della Resistenza di Torino a cura di Paolo Gobetti, Antonio Lombardo e Renzo Bacchini. La proposta era di pubblicare un libro di storia che riparasse i torti delle ricostruzioni fin qui fatte e riconsegnasse ai suoi giusti meriti la figura di Giovanni “Primo” Rocca, comandante partigiano tra i più importanti della Resistenza, guida anche dell’insurrezione partigiana dell’agosto del 1946 scattata dopo il provvedimento d’amnistia di Togliatti. Ma il materiale, pur interessante, non era sufficiente. Claudio non si dava pace. Insisteva sull’importanza di dare verità e dignità a una storia che continuava a essere vilipesa o scordata. Durante un pranzo convocato per discutere la cosa mi sfuggì di dire «come libro di storia non servirebbe a nulla ma come opera letteraria sarebbe fantastica». I compagni di pasto furono d’accordo, talmente d’accordo che – infidi – mi affidarono l’opera. Recalcitrai, ma giorno via giorno mi entusiasmai a quella vicenda partigiana e a quella figura di comunista che fino all’anno prima conoscevo solo perché La Viranda gli dedica il vino Libertario Rosso. Così gli ho dedicato 19 mesi – il medesimo tempo che va dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45 – passati intensamente a scrivere e a pensare per via di quella storia alla Storia, per mezzo di quel personaggio a tutti i personaggi che fanno la storia e che poi sono dimenticati, costretti al divorzio dalla storia ufficiale.

Quali sono state le sue fonti e quanto c’è di “liberamente ispirato” rispetto all’effettivamente accaduto?

Anzitutto l’intervista di cui sopra e il libro di “Primo” Rocca Un esercito di straccioni al servizio della libertà che meriterebbe di essere ripubblicato. E poi tanto materiale d’archivio. Di liberamente ispirato ci sono i dialoghi, i monologhi, alcuni personaggi, qualche contesto. Moltissimo, ma ho tentato di essere il più maniacale possibile nella ricostruzione dei fatti. La letteratura non deve sparigliare la storia come si usa in molti dei cosiddetti romanzi storici; la letteratura che amo – compagna d’armi della filosofia – la diseppelisce, scava nelle ragioni che la storia ufficiale sbrana o cestina.

Coerente con i precedenti libri, hai usato uno stile narrativo in cui l’autore “si mimetizza” nella narrazione. Come cambia, se cambia, con questo libro il tuo modo di raccontare?
L’autore per dare la parola ai personaggi deve eclissarsi. Più si sottrae tanto più i personaggi acquistano dignità di parola. Un libro inizia a vivere quando l’autore comincia a morire. Per entrare nella vita – e nella mente – di un personaggio è d’obbligo uscire dalla propria. In questo libro la prima voce narrante sfuma fino a scomparire quando le voci narranti dei partigiani di Santa Libera acquistano autonomia, consistenza, forza. Ciò spero segnali che le ragioni ordinatrici dell’autore sono velleitarie; rimangono le vite vere normalmente cancellate dal fumo della storia. Sinceramente non so se il mio modo di raccontare sia cambiato con questo libro. Sono forse l’ultimo a poterlo dire. Certo è che è cambiata la mia vita, sono cambiati i miei pensieri. Ogni opera è un lungo viaggio dal quale chi riesce a tornare, anche se mantiene il nome, non è più quello di prima.

Vedove - Illustrazione di Antonio Pronostico
Vedove

Che rapporto c’è tra l’anelito dei ribelli di Santa Libera e la Resistenza celebrata il 25 aprile?
Nessuno. Durante le celebrazioni, per dirla con il libro, «i partigiani si rendono utili spolverandosi a festa una volta l’anno per dimostrare che tutte le nefandezze d’Italia vengono compiute nel nome della Resistenza». C’è di buono solo che, in attesa di trovare uno straccio di futuro, tanti ragazzi guardano con interesse a quel passato.

Che differenza c’è tra i valori dei ribelli di Santa Libera e quelli della Resistenza che hanno costituito le fondamenta della Costituzione italiana?
Quando nel 1948 la Costituzione viene approvata l’Italia si è già infilata nel tunnel domocristiano. Quell’involucro formale – succede spesso nella storia – viene sostanzialmente deriso e calpestato dalla realtà delle cose. Ci vorranno il ’68, l’autunno caldo e il ’77 per riprendere con le dovute differenze il filo di quella matassa. I ribelli di Santa Libera non accettano che gli ideali della Resistenza rimangano parole vuote, che i padroni riprendano a governare, che le organizzazioni dei lavoratori facciano le belle statuine. Tolto dai piedi il fascismo, desiderano cambiamenti sociali radicali, riconoscimento pieno dei diritti dei partigiani. Si vedono invece messi ai margini. Ciò che poi si calpesta nonostante la Costituzione, Rocca e compagni lo pretendono prima che la Costituzione venga varata.

“Ridotta alla ragione santa libera rimangono tutti fuochi fatui” scrivi. Quasi ad ammettere che il valore di quel progetto insurrezionale è nel suo essere contro la ragione, quasi utopia. È così? Ha ancora senso ai giorni nostri una ribellione “utopica”?
L’insurrezione di Santa Libera godeva di un grande appoggio proletario e partigiano, ma scontava una situazione profondamente sfavorevole. Anzitutto perché avveniva non solo contro le direttive del Partito Comunista, ma in opposizione all’amnistia voluta dal PCI e firmata dal suo capo Palmiro Togliatti.
Anche in questo Santa Libera è stata precorritrice. Quante altre volte i movimenti sono andati oltre le organizzazioni che pure li avrebbero dovuto rappresentare.
Stupisce che i movimenti non se ne siano quasi accorti. Se si guarda alle esperienze partigiane più evocate, infatti, in tutti questi decenni che ci separano dalla resistenza si sono osannate più esperienze quali i Gap, la Volante Rossa che a differenza di Santa Libera erano strettamente poste sotto il controllo del Pci e bazzicavano spesso con le ali più staliniste del partito.
È vero: tutte le profonde ragioni dei ribelli di Santa Libera cozzavano contro la ragione storica. Ciò potrebbe far parlare di ribellione utopica. Ma non bisogna dimenticare che quei partigiani erano contadini, operai. Uomini pratici che intendevano risolvere con urgenza problemi fondamentali per l’Italia del tempo. Più che a un’utopia, a un non luogo – le utopie sono sorelle gemelle dei miti – pensavano credo a una topia, a un luogo preciso – dell’Italia, dell’Europa – nel quale la loro sete di giustizia e uguaglianza cominciasse a essere soddisfatta. La ribellione di Santa Libera ci è vicina anche per questo: allora come adesso si ha bisogno di luoghi della trasformazione, della cooperazione, di luoghi dell’immanenza in cui mescolare la nostra vita, non di non luoghi della trascendenza per consolare e bloccare in ghiacciaia ogni prurito di cambiamento.

Un minatore - illustrazione di Antonio Pronostico
Minatore

Scorrendo le pagine del tuo libro non si può non guardare all’oggi: quella dei ribelli di Santa Libera appare quasi come una profezia avverata. Che lezione può trarne la società dei giorni nostri?
Una lezione eccezionale: quella che in Per sempre partigiano viene denominata l’arte di tendere la storia. L’imperativo di esperire ogni mossa per ottenere il massimo del possibile in una situazione storica data. Senza pretendere di più, ma senza accontentarsi di niente che risulti anche impercettibilmente di meno.

Concludo con una curiosità: come nasce l’associazione tra il tuo lavoro e i vini Santa Libera dei Ribelli e Rosso Unito?
Santa Libera dei Ribelli è un vino rosso superiore che Claudio Solito dell’azienda La Viranda ha dedicato all’insurrezione partigiana dell’agosto 1946. Senza la passione di Claudio questo libro non sarebbe mai nato. Rosso Unito è un vino che mescola 4 esperienze enologiche ribelli – La Viranda, Aurora, A vita, Valli Unite. Un’esperienza che rifiuta le regole costituite e che affronta l’alea della sperimentazione, dell’avanguardia. È una piccola dimostrazione che la rivoluzione si fa vedere nelle piazze, ma i suoi luoghi d’elezione sono i campi, le case, le tavole. La rivoluzione si esprime di tanto in tanto con le urla delle folle ma marcia rapida negli atti minuti della quotidianetà.