Nessuna delle federazioni del Coni è presieduta da una donna e le campionesse che abbiamo visto vincere a Rio non sono quasi mai professioniste

Delle 28 medaglie vinte dalla squadra italiana alle Olimpiadi di Rio, le donne ne hanno vinte 10: un solo oro sugli otto complessivi, ma sette argenti su dodici, due bronzi. Non hanno quindi sfigurato rispetto ai loro compagni, stante che, se non sbaglio, le donne ammontavano a poco più di un terzo della squadra italiana presente a Rio. È quindi un buon momento per sollevare per l’ennesima volta la questione della disparità di trattamento che ancora esiste tra atlete e atleti, dal punto di vista sia economico sia della sicurezza sociale, una disparità che sembra resistere tenacemente, nonostante le diverse proposte di legge periodicamente presentate in parlamento a questo scopo e l’azione di Assist, l’Associazione nazionale atlete.

Questa disparità ha tre origini distinte. La prima è che la legge 91/1981, che regola il professionismo sportivo, attribuisce questo status solo a «gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal Coni e che conseguono la qualificazione dalle Federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle Federazioni stesse con l’osservanza delle direttive stabilite dal Coni per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica». Di fatto, queste discipline e relativa regolamentazione sono limitate (per decisione di Federazioni e Coni) a calcio, golf, pallacanestro, motociclismo, pugilato e ciclismo.

Gran parte degli sport che vedono una forte partecipazione femminile – scherma, nuoto, atletica leggera, ginnastica, tennis – non rientrano tra quelli che possono venir svolti professionalmente, quindi anche essere tutelati da contratti e prevedere contributi a fini di malattia, infortuni, pensione. Di conseguenza, anche quando si tratta di un impegno di fatto a tempo pieno, tra allenamenti e gare, i compensi comparativamente sono bassi, spesso in nero, senza alcuna garanzia formale.  Ciò vale, per altro, anche per le calciatrici, giocatrici di basket, cicliste e pugili donne, nella misura in cui le rispettive Federazione non riconoscono a questi sport, se esercitati da donne, la possibilità di avere anche una categoria professionista.  Tanto per capirci, sono dilettanti le calciatrici della Nazionale di calcio femminile, così come la tennista Pennetta, la tuffatrice Cagnotto, le nuotatrici Rachele Bruni e Federica Pellegrini, la sciatrice Di Centa, le schermitrici Vezzali e Di Francisco. Sarà forse perché nessuna delle 41 Federazioni è presieduta da una donna, neppure tra quelle dove le donne sono la maggioranza dei tesserati?

Anche gli atleti maschi non professionisti sperimentano la medesima vulnerabilità delle loro colleghe. Ma qui interviene un’altra fonte di disparità. Gli atleti dilettanti maschi sono molto più spesso delle donne inquadrati nell’esercito, nella polizia o tra i carabinieri. È una differenza che ha origini nella esclusione delle donne da questi ambiti lavorativi fino ad epoca recente, che tuttavia persiste anche oggi. Mentre agli uomini così “protetti” è garantita continuità di reddito e contributiva, anche dopo la fine della carriera sportiva, per le donne questa rete di protezione è molto meno accessibile, così come sembra sia meno accessibile il passaggio ad allenatore o tecnico una volta terminata la carriera di atleta. A questo squilibrio si somma quello nei compensi e nel valore dei premi. Secondo un’indagine pubblicata sul sito di Repubblica, il gender gap nello sport è più alto ancora che nel mercato del lavoro standard, con le atlete che in media guadagnano il 30% in meno dei loro colleghi.

C’è chi può rifarsi con gli sponsor, ma l’infelice titolo sul trio delle cicciottelle e un rapido sguardo su chi ottiene passaggi tv segnalano come l’estetica conti per le atlete in misura enormemente maggiore che per gli atleti, a prescindere dalla loro bravura. La mancanza di protezione è particolarmente dannosa, oltre che in contrasto con tutte le norme a partire dall’articolo 39 della Costituzione, nel caso di maternità. Non essendo professioniste, quindi non avendo un contratto di lavoro, le atlete non hanno diritto al congedo di maternità e genitoriale. Il Coni dal 2007 ha dato direttive per quanto riguarda il mantenimento in squadra e del punteggio acquisito. Ma solo poche federazioni le hanno recepite e molte atlete rischiano di essere congedate, o comunque penalizzate per una gravidanza. Eppure, anche in questi giorni, abbiamo visto che una maternità non riduce le capacità atletiche di una donna, anzi.

L’opinione di Chiara Saraceno è tratta da Left in edicola dal 27 agosto

 

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