«Nel 1961 leggeva il 16% per cento degli italiani, oggi il 45». Abbiamo fatto passi avanti importanti, ma non basta dice Giuseppe Laterza che per allargare il pubblico, oltre a pubblicare libri di qualità, ha inventato i presidi della lettura e un festival.

“Il Paese ha urgente bisogno di un modello di promozione della lettura costruito in modo pubblico e trasparente”, si legge nella lettera aperta che Giuseppe e Alessandro Laterza hanno pubblicato sul Corsera del 29 luglio dopo la decisione dell’Associazione italiana editori (Aie) di organizzare una fiera del libro a Milano boicottando quella di Torino. “Un percorso che va costruito insieme alle biblioteche e alle scuole, perché dalle tante realtà di base che operano in condizioni difficili in ogni angolo del Paese sono nate le migliori idee e pratiche”. Anche di questo è stato inviatato a parlare Giuseppe Laterza il 2 settembre a L’Aquila nel convegno “Arte, Cultura, Pensiero sociale e politico” ideato e coordinato da Paolo Fresu organizzato da MIDJ.

Per capire cosa sta accadendo nel mondo editoriale italiano su cui pesa la posizione dominante di Mondazzoli e insufficiente politiche per la lettura, abbiamo rivolto qualche domanda all’editore barese che nel 2001 ha avviato i presidi del libro proprio partendo dal Sud, dove si legge di meno.

Giuseppe Laterza fiera del libro
Giuseppe Laterza

Giuseppe Laterza, la decisione dell’Aie di fare una fiera del libro a Milano  nei giorni del Salone di Torino ha aperto una spaccatura nel mondo dell’editoria, cosa ne pensa?

L’Aie che ci rappresenta come editori, in questa occasione, ha compiuto molti errori. Il primo è stato pensare che un Salone del libro, che ha come scopo la promozione della lettura, possa essere gestito in esclusiva dagli editori. Ma questa è materia pubblica, con una valenza culturale prima che commerciale. Perciò necessita di una gestione integrata di pubblico e privato in cui non possono mancare i ministeri e i rappresentanti della scuola, delle biblioteche. Il secondo errore è una sorta di campanilismo milanese: “siamo i più efficienti”, “qui è radunata gran parte dell’editoria italiana, la fiera si fa qui”. Io penso, invece, che la ricchezza dell’editoria italiana, e dell’Italia in genere, stia nella sua molteplicità. Certo, il Salone di Torino è stato gestito in modo dissennato negli ultimi anni, come è emerso dalle inchieste della magistratura, ma l’Aie avrebbe potuto chiedere un ruolo più importante nella Fondazione, chiedere di avviare un cambiamento, facendo proposte in positivo invece di questa fuga in avanti che ha sortito un effetto negativo, spaccando il mondo dell’editoria.

Per allargare il pubblico dei lettori è utile fare due fiere a maggio a Milano e Torino  quando si fa poco e  niente al Sud dove si legge di meno?

No, non lo è. In questo ambito non ci sono scorciatoie. Per anni è stato detto che una grande campagna per la lettura potesse risolvere il problema. Invece serve un lavoro molecolare, di base, che va fatto giorno per giorno. Contano molto le esperienze locali. Noi abbiamo fondato un’associazione nel 2013 e oggi conta quasi 100 gruppi di lettura disseminati anche nei piccoli centri, dove non ci sono biblioteche e librerie. Ogni anno a novembre facciamo un forum del libro, quest’anno sarà a Mantova, in cui raccogliamo le migliore esperienze di gruppi di lettura nati dalla scuola, in aree di forte immigrazione, dove la lettura è anche un elemento di riscatto sociale non solo culturale. Insomma non ci sono ricette miracolose, bisogna investire sulla cultura, come la nostra classe dirigente, purtroppo, non fa da molti anni.

Festivaletteratura a Mantova, quello della filosofia a Modena, Carpi e Sassuolo, quello dell‘economia che Laterza organizza a Trento, attraggono moltissimi lettori. Cosa ne pensa di questo fenomeno?

Sono esperienze straordinarie che hanno mobilitato milioni di persone. Alla base c’è un desiderio di conoscenza, ma io credo anche di socialità. Ed è il valore aggiunto dei festival rispetto ad altre esperienze su internet o youtube. Non solo si ascolta un autore ma lo si fa insieme ad altre persone. La cultura può essere una esperienza di condivisione.

La vostra è una grossa casa editrice che ha mantenuto la sua indipendenza. Che significa per lei?

Vuol dire poter fare scelte non dettate da terzi, da vincoli esterni. Avere una linea editoriale penso, spero, riconoscibile, ma che non ci preclude di dare voce a punti di vista diversi. Indipendenza è poter dire la propria, senza essere faziosi, con pluralismo sostanziale delle idee, in ciò che si fa e si pubblica.

Anche se in Italia ci sono delle posizioni di preminenza nel mercato che determinano anomalie nella filiera del libro.

Il nostro è un Paese anomalo. Abbiamo il gruppo editoriale più grande che esiste in Occidente relativamente al proprio mercato. Non solo perché Mondadori ha il 30 %, un terzo del mercato, ma anche perché fra il primo e il secondo gruppo c’è una differenza abissale: GeMS ha meno di un terzo di Mondadori che dispone di una possibilità di influenzare il mercato come ha riconosciuto anche l’Antitrust chiedendo provvedimenti; a mio avviso insufficienti. La mentalità italiana è scarsamente liberale, qualcuno dice di essere liberista ma forse non sa che significa rispetto dell’interesse dei consumatori: ovvero che non ci sia strapotere di mercato, come in Italia invece c’è. Certo niente di simile a giganti mondiali del calibro di Facebook o Google. Il potere di Mondadori è locale. Da un lato in Occidente c’è una possibilità di scelta abbastanza ampia nel settore del libro, dall’altro ci sono forti concentrazioni, che preoccupano perché l’uso di questo potere può essere oggi buono domani no.

La rete offre di tutto, ma anche il contrario di tutto, senza filtri. Per questo serve tanto più quel pensiero critico che si forma studiando, con l’approfondimento argomentato e documentato che offrono i libri?

Non c’è solo c’è bisogno di pensiero critico, ma anche di un pensiero forte che elabori un modello diverso di sviluppo che, se c’è già, fa fatica a diffondersi. Siamo ancora in una fase dominata da un pensiero individualista elaborato negli anni 80 e 90. Non tiene più, la crisi lo ha dimostrato, ma come editore non vedo il diffondersi di una alternativa; ci sono tante singole proposte, ma non ancora un modello alternativo che faccia presa. Ed è paradossale che l’unico rappresentante globale di un pensiero alternativo sembri essere papa Francesco. Io credo che sia una lacuna gigantesca della sinistra laica non essere capace di esperirsi con radicalità. È davvero curioso che sia il papa il punto di riferimento del pensiero critico del sistema economico.

In questo senso cosa state preparando fra le prossime uscite?

Molta storia, e in particolare un bel libro di Alessandro Barbero, in cui indaga il difficile rapporto della Chiesa con la modernità. A settembre uscirà la filosofia tascabile con i migliori aforismi per tema degli ultimi 15 anni del Festivalfilosofia e poi saggistica politica, di critica sociale ed economica.

Dunque cultura per ricostruire il Paese?

Per fortuna c’è una parte del Paese che reagisce. In Italia ci sono 4/5 milioni di persone, lettori forti, che vanno ai concerti, al cinema ecc. Sono l’elite di questo Paese, il problema è che quasi mai hanno potere. L’establishment è spesso più ignorante. Gli indici ci dicono che in Italia siamo al di sotto di 10 punti della media europea di lettori (55%). Ma non è vero che i giovani non leggono. Anzi. Tra i 15 e i 25 sono la fascia prioritaria per la lettura e dai 25 ai 35 per l’acquisto. Il problema, come accennavo, sono i professionisti, quelli che fanno carriera non per competenza, quelli convinti che basta conoscere la persona giusta, che accettano di fare qualche compromesso. Il problema è la povertà culturale, concettuale, di argomentazione, della nostra classe dirigente. Ma una base c’è. Basta pensare che1961 leggeva il 16 % degli italiani, oggi il 45. Abbiamo fatto passi enormi, veniamo da un Paese analfabeta. Serve ancora l’ottimismo della volontà.

 

Il manifesto di Zagrebelsky e di 100 professori a sostegno del Salone del libro

«E’vvero stupefacente che alcuni editori, in virtù della loro forza di oligopolio e sulla spinta di un risultato elettorale, possano illudersi di mettere sotto il braccio una realtà costruita negli anni dalla passione di centinaia di migliaia di persone, partecipi e presenti, e portarsela da un’altra parte». Inizia così l’appello dei professori a sostegno del Salone del libro, firmato da Gustavo Zagrebelsky, Gian Luigi Beccaria, Luciano Canfora, Franco Cardini e molti altri. La decisione dell’Aie di organizzare una propria fiera del libro a Milano a maggio (in coincidenza con il trentennale della kermesse torinese, prevista dal 18 al 22 maggio 2017) ha scatenato proteste a raffica, causando l’uscita dall’Aie di un numero consistente di editori medi e piccoli contrari alla proposta passata a maggioranza. Fra loro Edizioni e/o, Nottetempo, Add, Minimum Fax, Sur, Iperborea, 66thand2nd, Edizioni Clichy e altri che si sono dati appuntamento l’8 settembre al Circolo dei lettori di Torino per un primo incontro.
Malgrado gli sprechi e i problemi di trasparenza gestionale che il Salone di Torino ha dovuto affrontare, la manifestazione è stata sempre aperta alle proposte dell’editoria indipendente e disponibile ad accogliere le proposte di editori che non hanno la forza contrattuale di colossi come “Mondazzoli”. E i piccoli e medi editori temono che la fiera milanese voluta dai big dell’editoria italiana non garantisca sufficiente pluralismo.
In difesa del Salone, nel frattempo, si sono mossi anche i lettori con una petizione online che ha già raccolto quasi 15.400 firme. Mentre la Fondazione del Salone del libro presieduta dalla sindaca di Torino, Chiara Appendino, e dal presidente della Regione, Sergio Chiamparino, ha chiesto all’ex ministro della cultura Massimo Bray di assumere il ruolo di presidente ed è in cerca di un nuovo direttore. Fra i nomi che circolano c’è quello dello scrittore Giuseppe Culicchia. La Fondazione si appresta a varare un nuovo statuto che apre all’ingresso di nuovi soci, fra i quali editori, il Mibact e il Miur.
Per contribuire alla sopravvivenza e al rinnovamento del Salone di Torino, Zagrebelsky e altri intellettuali propongono che diventi una sorta di “terra madre” del libro, accogliendo proposte da ogni parte del mondo e organizzando riunioni di lettori non solo in Italia. Così, mentre un centinaio di professori invita il Salone ad aprirsi ad uno sguardo ancor più internazionale, il ministro della Cultura Franceschini, suggerisce piuttosto a una sua settorializzazione, indirizzata alla lettura per bambini e ragazzi, in vista della fiera più ampia a Milano, di cui a settembre l’Aie annuncerà nome e prospettive.
s.m.

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