Il Presidente della Bundesbank Weidmann in questi giorni ha ricordato che il Quantitative easing scade a marzo 2017 e che non è affatto obbligatorio prolungarlo. Renzi gli ha replicato che pensa solo alle banche tedesche. È vero. E per questo serve contrapporre un piano B

Il Presidente della Bundesbank Jens Weidmann in questi giorni ha ricordato che il Quantitative easing scade a marzo 2017, senza che sia obbligatorio prolungarlo, e ha rilanciato sulle politiche di austerity. Di passaggio, ha anche espresso parere negativo sulle richieste italiane di flessibilità di bilancio.

Renzi gli ha risposto di pensare alle banche tedesche. Il guaio è che è esattamente ciò che Weidmann sta facendo.
Perché il quantitative easing e la politica sui tassi della Bce fanno molto bene a Stati indebitati come l’Italia, che pagano interessi bassi, ma molto male alle banche, che vedono ridursi i propri margini di guadagno. Ma ora Merkel deve spiegare ai propri elettori in nome di cosa accetti di vedere penalizzati i propri risparmiatori e i propri istituti di credito, e non è facile dire che serve per permettere all’Italia di continuare a indebitarsi senza problemi.

Infatti l’estrema destra nazionalista di Afd cresce esponenzialmente, promettendo di fatto di lasciar affondare i mediterranei nel loro mare. Come si vede, siamo davanti a un conflitto vero fra interessi divergenti per cui rischia di non esserci soluzione nel quadro dell’Euro. L’Italia ha infatti bisogno che la Bce continui a tempo indeterminato a comprare i propri titoli di Stato, come in effetti potrebbe fare qualsiasi Banca Centrale al mondo. La Germania ha interesse che i tassi si alzino i tempi rapidi, dato che le sue aziende possono permettersi un costo del denaro più elevato, mentre i pensionati non sono abituati a incassare poco o nulla sui bund. Quanto alle banche, se in Italia può sembrare intelligente chiudere sportelli e licenziare personale per compensare il calo di redditività, non è detto che ovunque siano della medesima opinione.

Il compromesso d’altronde si chiamava Fiscal Compact, ovvero l’idea di tenere i tassi bassi per alcuni anni, durante i quali il debito italiano doveva essere abbattuto. Il Fiscal Compact non poteva funzionare fuori da scenari greci e infatti è stato giustamente rigettato, anche se per fare politiche del tutto inefficaci di taglio fiscale che non hanno prodotto crescita né equità sociale ma sono costate molto sul piano finanziario.

Ora siamo tuttavia pericolosamente vicini al redde rationem, senza che si abbia un’idea su come uscirne positivamente.
La destra tedesca continua a ripetere “o austerity o morte” e la sinistra di quel Paese non sa esprimere un’ipotesi di Europa alternativa. È lo schema già provato con successo contro il governo di Tsipras nell’estate del 2015: forzare un Paese ad adottare politiche non desiderate minacciandolo di espulsione unilaterale dalla comunità della moneta unica.

In Italia le forze cosiddette responsabili si chiudono nel mantra dell’Euro, mentre Lega e M5S oscillano fra propaganda anti-euro e voglia di governo. La sinistra ha il dovere di ragionare in chiave europea, ma non può in questo quadro evitare di elaborare un piano B praticabile, non fosse altro che per opporlo all’offensiva rigorista. In sua assenza, l’unica soluzione sembra essere la resa parolaia a cui ci ha abituato Renzi.