Con La terza Guerra Mondiale, il loro nono album, gli Zen Circus fanno un ritratto del (non sempre) Belpaese. Tra storie di provincia, social network pieni zeppi di insulti e talent show musicali

Questa è una storia underground. Fatta di punk e di rock ma anche di ballate pop e di canzoni che sono denunce e da tenere come coltelli fra i denti. Fatta di chiacchiere con i kebabbari la notte, di anime ammaccate, di insulti sui social, di sogni e disillusioni e dei quarant’anni che prima o poi compiamo tutti. Questa è la storia de La terza Guerra Mondiale (La Tempesta Dischi), l’ultimo album degli Zen Circus. Il nono per l’esattezza che è anche il disco della “maggiore età” perché gli Zen Circus, fondati da Andrea Appino a Pisa nel 1994, hanno compiuto 18 anni. È una storia underground. Non solo perché gli Zen vengono da un panorama musicale di nicchia che è riuscito negli anni a conquistarsi un pubblico sempre più vasto. Non solo perché Appino, Karim e Ufo, i tre componenti della band, nel 2009 cantavano “Andate tutti affanculo”. Ma anche perché le dieci tracce di La terza Guerra Mondiale scivolano in profondità e si insunano sotto pelle fin dal primo ascolto. «Questo disco è una fotografia collettiva e allo stesso tempo intima del momento storico in cui viviamo. Un album sociale, senza intenzioni politiche» racconta Karim Qqru il batterista del gruppo.

La terza Guerra Mondiale è un ritratto del (non sempre) Belpaese. Già colpisce dalla copertina…
È una foto scattata da Ilaria Magliocchietti e cu ritrae, noi tre imbecilli (ride), mentre siamo al bar a fare l’aperitivo. Con i nostri begli spritz davanti e i cellulari in mano a farci i selfie, mentre dietro di noi campeggia una città completamente distrutta dalla guerra. È una copertina forte, per noi funziona come una sorta di “Giano bifronte”, vuole sottolineare la costante antitesi che viviamo in questo momento storico. Da un lato l’evoluzione tecnologica, l’invasione dei social nella nostra vita quotidiana, la routine del web 2.0 per cui siamo sempre connessi; dall’altro un mondo lontano, fatto di città polverose dai nomi strani, ormai distrutte dalle bombe. Quella guerra che guardiamo attraverso lo schermo della tv, del computer o dello smartphone e per la quale ci commuoviamo al massimo quanto? 30 o 40 secondi a settimana?
Hai detto che dietro questo disco non c’è un’intenzione politica. Eppure “Zingara”, con cui raccontate “il cattivista” del web, è estremamente politica.
C’è un’“involuzione umana” che dilaga soprattutto sui social. Se prima entravi in un bar e sentivi degli imbecilli dire delle emerite stronzate, ora apri facebook e tutti quei discorsi, che non potevi o non volevi sentire, te li ritrovi spiattellati davanti. Qualsiasi luogo online diventa un posto in cui, potenzialmente, c’è qualcuno che confonde la libertà d’opinione con il diritto di offendere. Hai ragione quando dici che “Zingara (il cattivista)” è un pezzo politico, ma va anche oltre perché rappresenta un’ignoranza crassa che ormai non è nemmeno più identificabile con un solo partito. Se prima c’era una divisione dogmatica su certi argomenti, penso all’immigrazione, alla qualità dei diritti, al razzismo, ora mi capita di leggere commenti di un certo tipo scritti anche da gente che vota Pd. Tutto si riduce a un gran calderone. Nell’epoca del 2.0 ognuno vuole dire la sua, dalla pallanuoto alla guerra in Iraq, solo per il fatto di avere davanti una tastiera e una connessione adsl. Tra l’altro il testo di “Zingara” è perfettamente realistico visto che riprende pari pari gli screenshot di alcune frasi trovate su facebook e su twitter.
Canzoni come questa possono aiutare a combattere “i cattivisti”?
Facebook è un po’ la giostra dell’ego e tira fuori il cattivista che c’è in ognuno di noi. Non credo che la musica possa cambiare la testa della gente, bisognerebbe insegnare a contare fino a 10… o forse dovremmo tassare gli status. Quando fai un post lo paghi 20 euro e hai 10 minuti per dare conferma e accorgerti se stai scrivendo una cazzata (ride di gusto).

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