Il faticoso rapporto con la depressione del padre (e la propria), i perché della musica, il New Jersey. La storia di un fenomeno culturale senza pari raccontata in prima persona

Se non hai visto il New Jersey, i suoi pier (moli) sbeccati e decadenti (o volgari e trash come Snooky Polizzi, la reginetta di Jersey Shore), le file di case a doghe, un tempo di legno e oggi di plastica, il paesaggio corrotto dall’uomo e immerso nell’acqua delle paludi accanto all’Hudson, i ponti arrugginiti e la natura selvaggia dell’interno… se non hai visto il New Jersey forse non capirai mai Bruce Springsteen. O forse lo capirai benissimo, perché la grande arte, popolare o colta che sia, parla degli umani, non di un posto X in un tempo Y. E quella di Springsteen è grande arte. Meglio ancora, è l’essenza del rock’n’roll.

Sessantasette anni qualche giorno fa, Springsteen ha appena tenuto il concerto più lungo di una lunga storia di concerti lunghi a Philadelphia: 4 ore, tre minuti e 46 secondi. E adesso, da oggi, manda online e sugli scaffali delle librerie del mondo Born To Run, la sua autobiografia che prende il titolo dalla sua canzone icona (già, quante ce ne sono?). E anche il libro è destinato a vendere una montagna di copie.

In Born to Run il Boss ripercorre vita e carriera, il padre depresso, come molti altri nel suo ramo della famiglia, la madre italiana, la rabbia e il disagio placati solo suonando, la depressione che sbuca più di una volta e che gli fa temere di ammalarsi gravemente come il suo vecchio, l’etica del lavoro assorbita dall’ambiente circostante, quello del New Jersey fatto di comunità di gente e dalla testa dura, immigrata decenni prima dall’Europa. E poi la E Street Band, esempio inossidabile di tenuta per un gruppo che gira, suona e invecchia assieme.

I fan del Boss – che quasi non nomina il nomignolo, che non gli piace – sanno già praticamente tutto quel che troveranno, ma qui è scritto con un punto di vista personale, intimo e apparentemente senza filtri, con una prosa bella, fatta di immagini chiare, nitide come quelle delle sue canzoni. Che parli del padre e delle figure paterne eternamente cercate perché sempre in cerca di qualcuno che si occupi di te, o del complicato rapporto con le donne.

La copertina del libro di Springsteen

La relazione con il padre, i suoi modi bruschi figli della malattia e di una cultura rude (che in New Jersey alla gente piace chiamarsi Jersey strong), i suoi six-packs (i pacchi di lattine di birra degli operai) torna molto nel libro come nelle canzoni di Springsteen. Quella fatica di vivere è una costante della sua vita fin da piccolo: i comportamenti strani della famiglia (lo strapparsi i capelli, le urla nella notte dello zio), non nominati, mai detti o affrontati come qualcosa di cui occuparsi, «per un bambino, erano semplicemente misteriosi, imbarazzanti e ordinari». E per questo la nascita del primogenito e alcuni altri momenti di intimità e affetto tra sé e Dutch Springsteen, vengono richiamati nella loro semplicità: una pacca, uno sguardo, una parola che per un momento – e per una vita – colmano la ricerca di relazione intima, di affetto.

Poi c’è il rapporto con il pubblico, con lo show da tre ore e mezzo come luogo per andare altrove, come ha detto di recente in un’intervista al Late night show di Steven Colbert : «La notte (lo show, il concerto) ha una sua vita…è organica e crea da sola i propri limiti, il proprio tempo e il proprio spazio. Io sono lì per portarti fuori dal tempo, per giocare con lo spazio e il tempo». Le quattro ore di concerto passano così, come una specie di terapia per sé e per i milioni di fan che viaggiano pur di vederlo suonare.

Con le sue canzoni e la verve dei suoi concerti, il ragazzo che, come lo ha descritto Steve Van Zandt, Little Steven, il suo chitarrista e amico, «guardava verso sempre il basso ed era considerato uno strambo» ci racconta come si possa essere sofferenti dentro e capaci di dare e darsi enorme energia e anche allegria e gioia. Nelle sue canzoni Springsteen racconta l’America e i suoi patimenti, quelli del New Jersey che decade, quelle di Youngstown, Ohio, dove le fabbriche non ci sono più, quelle della crisi del 2008. È l’America bianca che in parte pensa di votare Trump perché si sente lasciata indietro. È l’America bianca che Springsteen ama, racconta, cerca come può di rendere meno rancorosa. Il libro, come le sue canzoni, ci portano anche dentro a quella storia. Oltre a quella di un fenomeno musicale e culturale fuori dal tempo, che riempie stadi di giovani e vecchi come se dai giorni dello Stone Pony, il locale di Ashbury Park dove ha cominciato a suonare, non fosse passato un minuto.

Springsteen parla di Trump
«Se soffri, se non hai avuto la tua fetta di torta e fatichi a far andare avanti la tua famiglia, le soluzioni semplici di Trump possono essere persuasive. E l’idea che governare sia complesso, che devi aspettare è difficile».