Hanno sicuramente ragione le opposizioni quando dicono che Matteo Renzi ha posticipato il più possibile la data del referendum costituzionale per recuperare terreno, e per far ingranare al meglio la campagna per il sì, che con i primi manifesti sta inondando le città - dopo aver pienamente inondato il web e, soprattutto, i tg - con i suoi argomenti più efficaci. «Per cancellare poltrone e stipendi», dice ad esempio il manifesto arancione, che ovviamente enfatizza la nascita del nuovo Senato (che non è l’abolizione del Senato) e la chiusura del Cnel, sorvolando sul fatto che si sarebbe ottenuto persino un risparmio maggiore se, invariato il numero di eletti, o calato di un terzo sia il numero dei senatori che quello dei deputati, si fossero tagliate banalmente le indennità: non ci sarebbe stato neanche bisogno di una legge costituzionale. Matteo Renzi sceglie di trasformare quello che per mesi è stato il referendum di ottobre nel referendum di dicembre, però, perché vuole mettere sul piatto della consultazione pesi ben più concreti della pura propaganda elettorale. In particolare, come facile immaginare, Matteo Renzi vuole spendersi la manovra di bilancio, che così arriverà a compimento giusto prima del voto e conterrà, questo è ormai chiaro, una mossa come quella degli 80 euro per le ultime europee. Non per niente il premier sta cercando di rosicchiare mezzo punto di deficit con Bruxelles, passando dall’1,8 previsto magari al 2,4. Bisogna mettere in campo qualcosa in più dei 600milioni promessi per l’anticipo pensionistico, misura che rischia di non esser così popolare (così come scarsamente apprezzato si è rivelato l’anticipo del Tfr, un vero flop) e che ha saldo negativo se paragonata al taglio annunciato per la Sanità: un miliardo, almeno. Dunque Matteo Renzi aprirà (di nuovo) la sua campagna per il sì il 29 settembre da Firenze, e avrà dieci settimane per affermare le sue ragioni. Giorni che servono tutti, anche perché palazzo Chigi - consapevole che questa volta, senza quorum, vince chi porta più indifferenti alle urne - ha deciso di puntare sugli italiani all’estero, più sensibili di chi già da un anno si nutre della sua retorica al fascino del nuovismo. Maria Elena Boschi vola anche per questo il Sudamerica, ed è solo uno dei viaggi previsti. Quattro milioni di connazionali voteranno per posta e voteranno venti giorni prima di noi, e quindi bisogna subito concentrarsi su di loro, andare lì dove il comitato del No fatica più ad arrivare. C'è poi il fattore "giorno del giudizio", poi, perché il 4 dicembre si vota anche in Austria, dove avanza la destra, e la campagna potrà trasformare il voto in una sorta di spartiacque, da un lato il populismo, dall'altra la responsabilità. Tutto ciò, ovviamente, avendo comunque cura di organizzare una degna exit strategy. Ma il Quirinale sembrerebbe al momento orientato - in caso di sconfitta e crisi - a dare ancora un mandato a Renzi, senza guardare subito al candidato che stanno facendo circolare i bersaniani, che pensano a un maxi governo Calenda per rifare un’altra riforma, più snella, una legge elettorale e traghettare tutti al voto nel 2018.

Hanno sicuramente ragione le opposizioni quando dicono che Matteo Renzi ha posticipato il più possibile la data del referendum costituzionale per recuperare terreno, e per far ingranare al meglio la campagna per il sì, che con i primi manifesti sta inondando le città – dopo aver pienamente inondato il web e, soprattutto, i tg – con i suoi argomenti più efficaci. «Per cancellare poltrone e stipendi», dice ad esempio il manifesto arancione, che ovviamente enfatizza la nascita del nuovo Senato (che non è l’abolizione del Senato) e la chiusura del Cnel, sorvolando sul fatto che si sarebbe ottenuto persino un risparmio maggiore se, invariato il numero di eletti, o calato di un terzo sia il numero dei senatori che quello dei deputati, si fossero tagliate banalmente le indennità: non ci sarebbe stato neanche bisogno di una legge costituzionale.

Matteo Renzi sceglie di trasformare quello che per mesi è stato il referendum di ottobre nel referendum di dicembre, però, perché vuole mettere sul piatto della consultazione pesi ben più concreti della pura propaganda elettorale. In particolare, come facile immaginare, Matteo Renzi vuole spendersi la manovra di bilancio, che così arriverà a compimento giusto prima del voto e conterrà, questo è ormai chiaro, una mossa come quella degli 80 euro per le ultime europee. Non per niente il premier sta cercando di rosicchiare mezzo punto di deficit con Bruxelles, passando dall’1,8 previsto magari al 2,4. Bisogna mettere in campo qualcosa in più dei 600milioni promessi per l’anticipo pensionistico, misura che rischia di non esser così popolare (così come scarsamente apprezzato si è rivelato l’anticipo del Tfr, un vero flop) e che ha saldo negativo se paragonata al taglio annunciato per la Sanità: un miliardo, almeno.

Dunque Matteo Renzi aprirà (di nuovo) la sua campagna per il sì il 29 settembre da Firenze, e avrà dieci settimane per affermare le sue ragioni. Giorni che servono tutti, anche perché palazzo Chigi – consapevole che questa volta, senza quorum, vince chi porta più indifferenti alle urne – ha deciso di puntare sugli italiani all’estero, più sensibili di chi già da un anno si nutre della sua retorica al fascino del nuovismo. Maria Elena Boschi vola anche per questo il Sudamerica, ed è solo uno dei viaggi previsti. Quattro milioni di connazionali voteranno per posta e voteranno venti giorni prima di noi, e quindi bisogna subito concentrarsi su di loro, andare lì dove il comitato del No fatica più ad arrivare. C’è poi il fattore “giorno del giudizio”, poi, perché il 4 dicembre si vota anche in Austria, dove avanza la destra, e la campagna potrà trasformare il voto in una sorta di spartiacque, da un lato il populismo, dall’altra la responsabilità. Tutto ciò, ovviamente, avendo comunque cura di organizzare una degna exit strategy. Ma il Quirinale sembrerebbe al momento orientato – in caso di sconfitta e crisi – a dare ancora un mandato a Renzi, senza guardare subito al candidato che stanno facendo circolare i bersaniani, che pensano a un maxi governo Calenda per rifare un’altra riforma, più snella, una legge elettorale e traghettare tutti al voto nel 2018.