Domitilla Di Pietro: «Per me scrivere è stata una liberazione. Con questo libro voglio impedire che una donna subisca quello che ho vissuto io»

«Quando l’editore mi ha proposto di scrivere che era una storia vera, ci ho pensato molto. Poi mi sono detta “Domi ci sei, a questo punto chiudi il cerchio una volta per tutte”». La “storia vera” è quella di Domitilla Shaula Di Pietro, una donna romana, bella e solare, che da un po’ di tempo ha trovato la sua strada anche nella pittura. Dodici anni fa è stata vittima di una violenza sessuale, per sei ore e 23 minuti. E Sei ore e 23 minuti è il titolo del romanzo che esce oggi pubblicato dall’editore Fanucci. Per dodici anni Domitilla non ha mai parlato di quella notte, di quella passeggiata sotto la luna finita nel terrore, dopo essere aggredita e sequestrata sotto la minaccia di una pistola e un coltello da un uomo che conosceva di sfuggita. In seguito aveva scritto qualcosa, «come sfogo», dice. Ma quando ha saputo che quell’uomo era morto dopo un ictus, a quel punto «è stata una liberazione totale, l’ho finito in un mese».

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Intervistare una donna vittima di una violenza sessuale non è semplice, anche se su questa tremenda esperienza ha scritto un romanzo. Ma Domitilla racconta con voce sicura e una forza che traspare dalle parole. Perché non ha denunciato quell’uomo, chiediamo. «Lui mi ha minacciata, mi ha detto «so chi sei tu e dove vanno a scuola i tuoi figli». Era troppo grave quello che mi aveva fatto, troppo grande la responsabilità di denunciare sapendolo poi fuori, un uomo così instabile e pericoloso. Io allora ero “piccola”, le leggi non erano quelle di oggi».

Il libro l’ha scritto, ripete spesso «perché le donne riescano a denunciare ma soprattutto perché siano nella condizione di poterlo fare, perché io non ho potuto». Domitilla ricorda come molte delle donne che ogni anno vengono uccise in Italia dal proprio partner o ex abbiano alle spalle denunce e richieste di aiuto. Che non sono servite a nulla. «E poi mettiamo la violenza psicologica, continuamente tu vivi in uno stato di terrore. La denuncia diventa una cosa difficilissima a meno che non ci sia alla base una struttura che ti assicura che quest’uomo non torni a farti del male».

Un problema notevole, visto che i centri antiviolenza sono sempre più penalizzati dai tagli, come dimostrano le chiusure di alcune strutture “storiche” negli ultimi tempi, mentre il Piano d’azione nazionale contro la violenza sessuale e di genere dopo più di un anno di ritardo ha visto riunirsi la cabina di regia solo ai primi di settembre. Insomma, c’è molto da fare a livello delle istituzioni. Per Domitilla però si deve cominciare prima a lavorare contro la violenza sessuale. «Tutte queste leggi e forme di protezione sono comunque dei tappabuchi, perché significa agire dopo che ormai la donna ha subito una violenza. Allora l’unica forma di prevenzione è inserire la materia di educazione sessuale, di “non violenza” nelle scuole. Tu pensa a quanti bambini subiscono violenza nelle famiglie, una volta a scuola dove se ne parla, sai che aiuto sarebbe per loro e anche per le famiglie?».

Veniamo al romanzo, scritto con la formula dello sliding doors. L’autrice immagina due protagoniste, Frida 1 e Frida 2: la prima è quella che ha subito la violenza, la seconda no, la sua vita scorre normale. «Non saprò mai come sarebbe andata se non fossi uscita quella sera. Comunque mi sono detta che Frida 2 sono io lo stesso, quella prima della violenza e anche quella dopo, con la vita che riprende, nonostante tutto». Lo stile narrativo è incalzante, un turbinio di rapporti e personaggi circonda la protagonista. Raccontare con le parole scritte quello che ha vissuto in quella notte, dice Domitilla, «non è stato difficile, sono abituata fin da piccola a scrivere, diari, poesie. Mi rimane più difficile parlarne alle persone». Infatti non ne ha mai fatto cenno a nessuno, né al marito, da cui si stava separando, né ai genitori e nemmeno ai figli. Lo hanno saputo al momento della stesura del romanzo. «Soltanto mia nonna, mia sorella e una mia amica sapevano. Mi hanno aiutato tantissimo, sono stata circondata da un grande amore». È la nonna la figura centrale del libro e Domitilla spiega che ha sofferto di più a scrivere della sua morte che non di quelle “sei ore e 23 minuti”.

Nel romanzo a un certo punto Frida 1 si chiede «Se avessi visto i segnali», che significa? Se ne poteva accorgere prima e poteva evitare quell’incontro sfociato nel dramma? «Ognuna di noi che ha subito violenza e parlo anche delle donne vittime dei mariti o dei compagni, ha pensato per un attimo che quell’uomo non era persona così giusta e così normale. Ma non abbiamo dato retta al nostro intuito che difficilmente sbaglia. Quest’uomo io l’ho sempre incontrato – poche volte – in mezzo ad altra gente, comunque avevo sentito una grande aggressività verbale nei confronti delle donne, una fortissima misoginia, insomma, era una persona spiacevole, ma nessuno poteva immaginare che potesse arrivare a tanto. Io ne sono certa, che questi uomini una base di mostruosità la devono in qualche modo avere».

Il racconto della violenza è scarno e asciutto. E Domitilla sottolinea come «in assoluto è la prigionia psicologica che si subisce che fa soffrire, più di quella fisica. Noi donne siamo abituate alla sofferenza fisica, ci spaventa, io stessa pensavo di non uscirne viva ma veramente la più grande ferita, al di là della profanazione del corpo – chi se ne frega – sono i tre giri di chiave alla porta, la chiave sopra l’armadio. Io mi sono astratta dopo la prima ora, le altre cinque e 23 non sentivo più neanche dolore, non c’ero più io in quella stanza ma la ferita peggiore è proprio trovarsi in una situazione di non poter scegliere».

Dodici anni dopo è come se con il romanzo Domitilla si separasse definitivamente da quella “storia vera”. «Sono fiera di essere arrivata a questo punto e di poter combattere affinché non ci sia un’altra donna al mio posto domani». E poi aggiunge «Voglio dire che oggi mi sento molto più forte, per assurdo, sono sicura di essere migliore di quella che ero, la violenza non mi ha spaventata rispetto alla vita, mi ha reso più forte e forse più positiva. Io lo so che la vita può riservare brutte cose, importante è non permettere che ti inaridiscano. Le donne sono forti e propositive, bisogna reagire».