A Left l’aveva detto Roberto Biorcio, attento studioso di movimenti politici e sociali, esperto del Movimento 5 stelle e, prima, della Lega nord. «Il modello di organizzazione finora adottato dal Movimento 5 stelle», ci ha spiegato il professore di sociologia politica all’università Bicocca di Milano, nei giorni più caldi delle liti sulle nomine di Raggi, «cioè l’assenza di incarichi circostanziati e di una classe dirigente diffusa nei territori, può andare bene per fare opposizione o per amministrare un piccolo paese». Non per governare Roma, né per entrare, con speranze di successo, a palazzo Chigi. In un’intervista per il nostro settimanale, Biorcio ci spiegava così che il Movimento 5 stelle si sarebbe dovuto fare un po’ partito, crescere nell’organizzazione, burocratizzarsi un po’, anche e soprattutto per chiarire alcune procedure finora poco lineari, modificate troppo spesso all’occorrenza: «Il Movimento deve darsi un’organizzazione», dice Biorcio, convinto che «per operare in istituzioni importati le forze politiche che le vogliono governare devono dotarsi di strumenti di deliberazione più rapidi ed efficaci». Più efficaci del direttorio, ad esempio, «che si è rivelato tutt’altro che utile». Ecco dunque quello che sta accandendo al Movimento. Sta diventando sempre più un partito, anche se la parola ovviamente è bandita. Con una serie di votazioni sulla piattaforma Rousseau - la prima, per scegliere il nuovo “Non Statuto” che poi sarà emendabile si è chiusa ieri sera - gli attivisti stanno validando alcune modifiche ai regolamenti. Resta fermo l’articolo 4 del “Non Statuto”, ovvio: «Il Movimento 5 Stelle non è un partito politico né si intende che lo diventi in futuro». Ma in molti passaggi si rafforza il ruolo del “capo politico”, sparisce il direttorio, e si introduce un collegio dei probiviri, insieme a nuove regole per le espulsioni. Un capo politico, dunque, soprattutto, caratteristica fondamentale dei partiti, tanto che ora lo richiede anche l’Italicum. E in attesa che i parlamentari più noti smettano di litigare tra loro, siccome non è prevista una procedura per individuarne uno, il capo politico del Movimento è dovuto tornare a farlo a tempo pieno Beppe Grillo. Lo ha detto dal palco di Palermo: «Sono tornato!». Ma soprattutto lo ha fatto, come dimostra il secco post su twitter con cui ha disposto ai suoi il silenzio. Ordine rispettato da tutti. O quasi. L’unica che ha sgarrato - senza saperlo, avendo risposto al giornalista poco prima che Grillo twittasse - è stata Barbara Lezzi, una fedelissima, che parlando col Corriere conferma così la nostra analisi. «Grillo per noi è come un padre», dice Lezzi, che poi si lancia in interessanti valutazioni pedagogiche che rendono molto l’idea del ruolo del leader: «Grillo ogni tanto ci bastona. Ma se un padre bastona un figlio lo fa per il suo bene». Grillo è il capo politico di un non partito. Un capo peraltro autoritario.

A Left l’aveva detto Roberto Biorcio, attento studioso di movimenti politici e sociali, esperto del Movimento 5 stelle e, prima, della Lega nord. «Il modello di organizzazione finora adottato dal Movimento 5 stelle», ci ha spiegato il professore di sociologia politica all’università Bicocca di Milano, nei giorni più caldi delle liti sulle nomine di Raggi, «cioè l’assenza di incarichi circostanziati e di una classe dirigente diffusa nei territori, può andare bene per fare opposizione o per amministrare un piccolo paese». Non per governare Roma, né per entrare, con speranze di successo, a palazzo Chigi.

In un’intervista per il nostro settimanale, Biorcio ci spiegava così che il Movimento 5 stelle si sarebbe dovuto fare un po’ partito, crescere nell’organizzazione, burocratizzarsi un po’, anche e soprattutto per chiarire alcune procedure finora poco lineari, modificate troppo spesso all’occorrenza: «Il Movimento deve darsi un’organizzazione», dice Biorcio, convinto che «per operare in istituzioni importati le forze politiche che le vogliono governare devono dotarsi di strumenti di deliberazione più rapidi ed efficaci». Più efficaci del direttorio, ad esempio, «che si è rivelato tutt’altro che utile».

Ecco dunque quello che sta accandendo al Movimento. Sta diventando sempre più un partito, anche se la parola ovviamente è bandita. Con una serie di votazioni sulla piattaforma Rousseau – la prima, per scegliere il nuovo “Non Statuto” che poi sarà emendabile si è chiusa ieri sera – gli attivisti stanno validando alcune modifiche ai regolamenti. Resta fermo l’articolo 4 del “Non Statuto”, ovvio: «Il Movimento 5 Stelle non è un partito politico né si intende che lo diventi in futuro». Ma in molti passaggi si rafforza il ruolo del “capo politico”, sparisce il direttorio, e si introduce un collegio dei probiviri, insieme a nuove regole per le espulsioni.

Un capo politico, dunque, soprattutto, caratteristica fondamentale dei partiti, tanto che ora lo richiede anche l’Italicum. E in attesa che i parlamentari più noti smettano di litigare tra loro, siccome non è prevista una procedura per individuarne uno, il capo politico del Movimento è dovuto tornare a farlo a tempo pieno Beppe Grillo. Lo ha detto dal palco di Palermo: «Sono tornato!». Ma soprattutto lo ha fatto, come dimostra il secco post su twitter con cui ha disposto ai suoi il silenzio.

Ordine rispettato da tutti. O quasi. L’unica che ha sgarrato – senza saperlo, avendo risposto al giornalista poco prima che Grillo twittasse – è stata Barbara Lezzi, una fedelissima, che parlando col Corriere conferma così la nostra analisi. «Grillo per noi è come un padre», dice Lezzi, che poi si lancia in interessanti valutazioni pedagogiche che rendono molto l’idea del ruolo del leader: «Grillo ogni tanto ci bastona. Ma se un padre bastona un figlio lo fa per il suo bene». Grillo è il capo politico di un non partito. Un capo peraltro autoritario.