Una legge necessaria quella approvata definitivamente alla Camera il 18 ottobre. Ma non ancora sufficiente per gridare vittoria e aspettarsi la fine di fenomeni "ingombranti" come il caporalato e lo sfruttamento del lavoro agricolo. COSA PREVEDE LA LEGGE. Procediamo per ordine e partiamo dal contenuto del provvedimento: i 12 articoli del nuovo testo normativo, intanto, hanno il merito di mettere nel mirino della sanzione penale non più soltanto l'intermediario ma anche il datore di lavoro, arrivando a prevedere arresto in flagranza e confisca dei beni. Poi, non lega necessariamente la consumazione del reato a condotte violente o minacce. Anzi, individua come indicatore della condizione di sfruttamento anche la presenza di paghe più basse rispetto a quelle individuate dai contratti territoriali stipulati con i sindacati nazionali maggiormente rappresentativi. La nuova legge, obiettivamente uno strumento che si annuncia più efficace nella repressione dello sfruttamento del lavoro agricolo, è stata salutata con favore da tutte le realtà associative e sindacali del settore. Ma c'è chi, come il vicepresidente del Cetri Yvan Sagnet, uno dei simboli della lotta al caporalato in Italia, fa notare come sia prematuro «affermare che questa sia una vittoria per i lavoratori come dichiarato dal ministro e da alcune associazioni». E aggiunge: «Aspettiamo almeno la prossima stagione di raccolta a Rosarno per trarre ogni valutazione in merito». COME SI FORMA IL PREZZO? Una valutazione che non si deve fermare al reclutamento dei lavoratori lungo le strade statali delle nostre aree agricole, ma deve compiere quel viaggio a ritroso dai campi alle nostre tavole che ci consente di ricostruire la composizione del prezzo finale della frutta e verdura che acquistiamo. È sulla prevenzione e sulla trasparenza che ora si appunta l'attenzione dei tanti attivisti che negli anni hanno fatto pressing sulla politica per ottenere un intervento legislativo. «Dei 17-20 centesimi al massimo che la Gdo paga ai produttori per un chilo di arance, sono 7 quelli che vanno al lavoratore che le raccoglie. E spesso nelle piccole aziende, il datore di lavoro che, con o senza l’ausilio di caporali, utilizza migranti e richiedenti asilo come manodopera a nero sente anche di fare un’opera buona» spiega Fabio Ciconte, portavoce di Terra! Onlus, che con l’associazione daSud e Terrelibere.org anima la campagna Filiera Sporca. «Manca una legge sulla trasparenza della filiera, che renda obbligatoria l’etichetta narrante, per sapere chi sono i produttori, i subfornitori, di ciò che consumiamo, a chi conferiscono e quanti e quali passaggi fanno» spiega Ciconte. INDICI DI CONGRUITÀ. La catena dello sfruttamento è strettamente connessa alle opacità della filiera. Per questo, insite Sagnet, un’altra risposta possibile, almeno sulla carta, è il ricorso agli indici di congruità, strumento approvato nel 2006 in Puglia, riconosciuto come buona pratica europea «ma mai attuato per l’opposizione delle associazioni datoriali». In pratica, si calcola quanto prodotto si può ricavare su una data estensione di terreno in relazione al numero di lavoratori che si dichiara di aver impiegato: se si può produrre X con un lavoratore, con 10 non potrai discostarti tanto da una produzione di 10X, e in caso contrario di quantitativi troppo superiori scatta l’avvio di ispezioni ed eventualmente le sanzioni. «Purtroppo questa norma non è più all’ordine del giorno» spiega il vicepresidente del Cetri, «in Puglia i datori di lavoro si sentono messi alle strette e sostengono che è una forma di imposizione della manodopera alle imprese, nel resto nel Paese neanche a parlarne». Il discorso con Sagnet cade inevitabilmente sul tema del cosiddetto “lavoro grigio” e dei voucher, che ci si aspetterebbe siano largamente utilizzati in agricoltura. I dati di Coldiretti, invece, parlano per il 2015 di 2,2 milioni su 115 milioni complessivi, appena l’1,9%. «Esiste un’evasione contributiva enorme, a danno non soltanto dei lavoratori ma anche dello Stato» dice l’attivista e autore con Leonardo Palmisano del libro Ghetto Italia. «In agricoltura e non solo, i voucher peggiorano le condizioni dei lavoratori e minano dalle fondamenta la lotta all’evasione. Le aziende li usano spesso in modo improprio. Fin quando ci saranno i voucher sarà molto complicato introdurre gli indici di congruità, che vanno nella direzione opposta». I BUCHI DELLA RETE. Come riconoscere allora le aziende che non giocano sporco? Il ministero dell’Agricoltura ci ha provato di recente dando vita alla Rete del lavoro agricolo di qualità: una white list di aziende che facendone richiesta si candidano a far parte dello speciale elenco “sfruttamento free”. Ma, spiegano i nostri interlocutori, il fatto che le aziende non abbiano aderito in massa è già un segnale del fallimento di questo esperimento: poco più di 300 a fronte di un potenziale di imprese iscritte che si aggira attorno alle 100mila. «I meccanismi di accesso non bloccano la pratica del lavoro nero» denuncia Yvan Sagnet. «Avevamo chiesto che si pretendesse il rispetto del contratto collettivo, la prova del versamento di contributi e tasse, ma il governo ha limitato l’accesso solo al fatto che non ci siano state condanne nei tre anni precedenti all’iscrizione. Il rischio è che finiscano nella Rete anche aziende in odore di sfruttamento». Anche Ciconte condanna senza appello la Rete del lavoro agricolo di qualità, sia per ragioni teoriche - «l’assenza di sfruttamento è un prerequisito imprescindibile e non può essere oggetto di premialità» - sia perché garantisce agli aderenti di non essere sottoposti a controlli. Controlli che sono in ogni caso pochi e spesso male indirizzati. Un esempio per tutti, la Puglia, dove gli ispettori sono 99 e le imprese 300mila, una media di circa tremila imprese per controllore. Resta da vedere ora come saranno applicate le disposizioni della nuova normativa, che prevedono "il potenziamento della Rete del lavoro agricolo di qualità, in funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in agricoltura". CHI ORGANIZZA IL WELFARE? Per i lavoratori, le condizioni di vita restano dure anche fuori dai campi. «Purtroppo la cronaca ci insegna che i morti non ci sono soltanto a Rosarno e non sono solo quelli ammazzati a seguito di scontri» spiega Marco Omizzolo, presidente di In Migrazione e autore del recente libro La quinta mafia. «Nel Pontino abbiamo contato almeno cinque suicidi nell’ultimo anno: tutti si sono impiccati e nella maggior parte nei casi sul posto di lavoro, sui campi o nelle serre». Forme di riduzione in schiavitù, ricatto sessuale e aggressioni ai danni delle lavoratrici donne, truffe fatte approfittando della mancata conoscenza dell’italiano. Ora si spera che qualcosa cambi con l'applicazione della legge appena approvata, che dovrebbe sostenere la sistemazione logistica e consentire ai lavoratori stagionali di avere servizi. Eppure, nel caso dell’agro pontino, non parliamo di un flusso stagionale ma di una comunità stanziale di 30mila sikh prevalentemente impiegati in agricoltura, spesso con figli di nazionalità italiana, che versano - quando gli è consentito - i contributi allo Stato italiano ma hanno “minore diritto” alle cure, all’istruzione, alla casa. «E se il welfare non lo organizzi tu - riprende il ricercatore - c’è qualcun altro, indiano o italiano che lo organizza per te. Illegalmente». Così lo sfruttamento si moltiplica: «C’è gente che vive in Italia da vent’anni e non parla l’italiano. Si ha gioco facile a dire “non si vogliono integrare”, se non gli si offre la possibilità di farlo». Sono troppo i soggetti che traggono vantaggio dal tenere i lavoratori immigrati nel disagio e nell’ignoranza. Non consentendogli di leggere in autonomia una busta paga o un contratto di lavoro, ad esempio. Qui entra in gioco anche il ruolo delle figure professionali che si relazionano con i braccianti stranieri assieme ai datori di lavoro: «Avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro... Spesso sono loro a consigliare ai datori di lavoro id optare per forme di sfruttamento - concludo Omizzolo -. Per questo ci battiamo affinché che le pene aggravate riguardino anche questo soggetti».

Una legge necessaria quella approvata definitivamente alla Camera il 18 ottobre. Ma non ancora sufficiente per gridare vittoria e aspettarsi la fine di fenomeni “ingombranti” come il caporalato e lo sfruttamento del lavoro agricolo.

COSA PREVEDE LA LEGGE. Procediamo per ordine e partiamo dal contenuto del provvedimento: i 12 articoli del nuovo testo normativo, intanto, hanno il merito di mettere nel mirino della sanzione penale non più soltanto l’intermediario ma anche il datore di lavoro, arrivando a prevedere arresto in flagranza e confisca dei beni. Poi, non lega necessariamente la consumazione del reato a condotte violente o minacce. Anzi, individua come indicatore della condizione di sfruttamento anche la presenza di paghe più basse rispetto a quelle individuate dai contratti territoriali stipulati con i sindacati nazionali maggiormente rappresentativi.
La nuova legge, obiettivamente uno strumento che si annuncia più efficace nella repressione dello sfruttamento del lavoro agricolo, è stata salutata con favore da tutte le realtà associative e sindacali del settore. Ma c’è chi, come il vicepresidente del Cetri Yvan Sagnet, uno dei simboli della lotta al caporalato in Italia, fa notare come sia prematuro «affermare che questa sia una vittoria per i lavoratori come dichiarato dal ministro e da alcune associazioni». E aggiunge: «Aspettiamo almeno la prossima stagione di raccolta a Rosarno per trarre ogni valutazione in merito».

COME SI FORMA IL PREZZO? Una valutazione che non si deve fermare al reclutamento dei lavoratori lungo le strade statali delle nostre aree agricole, ma deve compiere quel viaggio a ritroso dai campi alle nostre tavole che ci consente di ricostruire la composizione del prezzo finale della frutta e verdura che acquistiamo. È sulla prevenzione e sulla trasparenza che ora si appunta l’attenzione dei tanti attivisti che negli anni hanno fatto pressing sulla politica per ottenere un intervento legislativo.
«Dei 17-20 centesimi al massimo che la Gdo paga ai produttori per un chilo di arance, sono 7 quelli che vanno al lavoratore che le raccoglie. E spesso nelle piccole aziende, il datore di lavoro che, con o senza l’ausilio di caporali, utilizza migranti e richiedenti asilo come manodopera a nero sente anche di fare un’opera buona» spiega Fabio Ciconte, portavoce di Terra! Onlus, che con l’associazione daSud e Terrelibere.org anima la campagna Filiera Sporca. «Manca una legge sulla trasparenza della filiera, che renda obbligatoria l’etichetta narrante, per sapere chi sono i produttori, i subfornitori, di ciò che consumiamo, a chi conferiscono e quanti e quali passaggi fanno» spiega Ciconte.

INDICI DI CONGRUITÀ. La catena dello sfruttamento è strettamente connessa alle opacità della filiera. Per questo, insite Sagnet, un’altra risposta possibile, almeno sulla carta, è il ricorso agli indici di congruità, strumento approvato nel 2006 in Puglia, riconosciuto come buona pratica europea «ma mai attuato per l’opposizione delle associazioni datoriali». In pratica, si calcola quanto prodotto si può ricavare su una data estensione di terreno in relazione al numero di lavoratori che si dichiara di aver impiegato: se si può produrre X con un lavoratore, con 10 non potrai discostarti tanto da una produzione di 10X, e in caso contrario di quantitativi troppo superiori scatta l’avvio di ispezioni ed eventualmente le sanzioni. «Purtroppo questa norma non è più all’ordine del giorno» spiega il vicepresidente del Cetri, «in Puglia i datori di lavoro si sentono messi alle strette e sostengono che è una forma di imposizione della manodopera alle imprese, nel resto nel Paese neanche a parlarne». Il discorso con Sagnet cade inevitabilmente sul tema del cosiddetto “lavoro grigio” e dei voucher, che ci si aspetterebbe siano largamente utilizzati in agricoltura. I dati di Coldiretti, invece, parlano per il 2015 di 2,2 milioni su 115 milioni complessivi, appena l’1,9%. «Esiste un’evasione contributiva enorme, a danno non soltanto dei lavoratori ma anche dello Stato» dice l’attivista e autore con Leonardo Palmisano del libro Ghetto Italia. «In agricoltura e non solo, i voucher peggiorano le condizioni dei lavoratori e minano dalle fondamenta la lotta all’evasione. Le aziende li usano spesso in modo improprio. Fin quando ci saranno i voucher sarà molto complicato introdurre gli indici di congruità, che vanno nella direzione opposta».

I BUCHI DELLA RETE. Come riconoscere allora le aziende che non giocano sporco? Il ministero dell’Agricoltura ci ha provato di recente dando vita alla Rete del lavoro agricolo di qualità: una white list di aziende che facendone richiesta si candidano a far parte dello speciale elenco “sfruttamento free”. Ma, spiegano i nostri interlocutori, il fatto che le aziende non abbiano aderito in massa è già un segnale del fallimento di questo esperimento: poco più di 300 a fronte di un potenziale di imprese iscritte che si aggira attorno alle 100mila. «I meccanismi di accesso non bloccano la pratica del lavoro nero» denuncia Yvan Sagnet. «Avevamo chiesto che si pretendesse il rispetto del contratto collettivo, la prova del versamento di contributi e tasse, ma il governo ha limitato l’accesso solo al fatto che non ci siano state condanne nei tre anni precedenti all’iscrizione. Il rischio è che finiscano nella Rete anche aziende in odore di sfruttamento».
Anche Ciconte condanna senza appello la Rete del lavoro agricolo di qualità, sia per ragioni teoriche – «l’assenza di sfruttamento è un prerequisito imprescindibile e non può essere oggetto di premialità» – sia perché garantisce agli aderenti di non essere sottoposti a controlli. Controlli che sono in ogni caso pochi e spesso male indirizzati. Un esempio per tutti, la Puglia, dove gli ispettori sono 99 e le imprese 300mila, una media di circa tremila imprese per controllore. Resta da vedere ora come saranno applicate le disposizioni della nuova normativa, che prevedono “il potenziamento della Rete del lavoro agricolo di qualità, in funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in agricoltura”.

CHI ORGANIZZA IL WELFARE? Per i lavoratori, le condizioni di vita restano dure anche fuori dai campi. «Purtroppo la cronaca ci insegna che i morti non ci sono soltanto a Rosarno e non sono solo quelli ammazzati a seguito di scontri» spiega Marco Omizzolo, presidente di In Migrazione e autore del recente libro La quinta mafia. «Nel Pontino abbiamo contato almeno cinque suicidi nell’ultimo anno: tutti si sono impiccati e nella maggior parte nei casi sul posto di lavoro, sui campi o nelle serre». Forme di riduzione in schiavitù, ricatto sessuale e aggressioni ai danni delle lavoratrici donne, truffe fatte approfittando della mancata conoscenza dell’italiano. Ora si spera che qualcosa cambi con l’applicazione della legge appena approvata, che dovrebbe sostenere la sistemazione logistica e consentire ai lavoratori stagionali di avere servizi. Eppure, nel caso dell’agro pontino, non parliamo di un flusso stagionale ma di una comunità stanziale di 30mila sikh prevalentemente impiegati in agricoltura, spesso con figli di nazionalità italiana, che versano – quando gli è consentito – i contributi allo Stato italiano ma hanno “minore diritto” alle cure, all’istruzione, alla casa. «E se il welfare non lo organizzi tu – riprende il ricercatore – c’è qualcun altro, indiano o italiano che lo organizza per te. Illegalmente». Così lo sfruttamento si moltiplica: «C’è gente che vive in Italia da vent’anni e non parla l’italiano. Si ha gioco facile a dire “non si vogliono integrare”, se non gli si offre la possibilità di farlo». Sono troppo i soggetti che traggono vantaggio dal tenere i lavoratori immigrati nel disagio e nell’ignoranza. Non consentendogli di leggere in autonomia una busta paga o un contratto di lavoro, ad esempio. Qui entra in gioco anche il ruolo delle figure professionali che si relazionano con i braccianti stranieri assieme ai datori di lavoro: «Avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro… Spesso sono loro a consigliare ai datori di lavoro id optare per forme di sfruttamento – concludo Omizzolo -. Per questo ci battiamo affinché che le pene aggravate riguardino anche questo soggetti».