Arrestati, sotto processo o addirittura condannati per aver preso parte ad attività di ricerca "sul campo". La comunità accademica lancia l'allarme «Qualcuno vuole imbavagliare chi racconta i conflitti sociali».

Negli ultimi anni il mondo della ricerca universitaria ha conquistato, in Italia e altrove, le prime pagine dei giornali, non per i suoi successi, ma per i risvolti cupi che hanno preso le vite di alcuni studiosi.
Sono stati accusati, arrestati e a volte condannati – o uccisi – per aver svolto ricerche sul campo in zone considerate “a rischio”: a contatto, cioè, con i movimenti politici e sociali antagonisti, invisi ai governi.

Partendo dalla storia di Andrej Holm, sociologo tedesco, che è stato in carcere preventivo per sospetto di terrorismo nel 2007, siamo arrivati agli ultimi anni italiani, dove la laureanda Roberta Chiroli è stata condannata per aver partecipato a una manifestazione No Tav mentre svolgeva una ricerca in Val di Susa nel 2013 e il docente di Napoli Enzo Vinicio Alliegro è in attesa di giudizio per aver documentato una protesta del “Popolo degli Ulivi” contro il taglio delle piante in Salento.

Grazie al contributo di docenti e ricercatori, abbiamo cercato di ricostruire alcuni dei casi in cui i saperi sono stati giudicati in tribunale e la ricerca universitaria è diventata un reato, in un cammino accidentato che spesso incontra la censura anche all’interno delle università e si trasforma in autocensura.

Ma se la libertà di ricerca universitaria è minacciata, in quali condizioni vertono le altre libertà sociali?

Secondo l’antropologo Stefano Boni la ricerca universitaria è solo una delle libertà compromesse dall’“accanimento di una parte della magistratura contro un’opposizione sociale che non risparmia nessuno, l’anziana signora come il ricercatore”.

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