«La precarietà mette in concorrenza tra loro i lavoratori». La sociologa del diritto Anna Simone anticipa il tema del suo libro in un'intervista

«Oltre che essere un processo di scomposizione del mercato del lavoro, la precarietà è anche, e soprattutto, un’antropologia, un meccanismo che costringe le persone ad adattarsi, una condizione esistenziale. Viviamo in una “società della prestazione”», dice a Left, Anna Simone, ricercatrice di sociologia del diritto a Roma3, anticipando il titolo del suo prossimo libro.
Che sia Eli o Vale, le due protagoniste di Sole, cuore, amore, il nuovo film di Vicari, una barista, l’altra danzatrice; che lo si faccia per il voucher come una bracciante o per il dividendo milionario come un top manager, la prestazione connota la condizione esistenziale di settori sempre più ampi della società, ci sono dei tratti comuni tra chi vive una condizione di non-lavoro o, al contrario di eccesso di lavoro. E si determinano processi di individualizzazione, infantilizzazione, patologie, suicidi e, in generale, una sottrazione generalizzata del futuro. «Pensa all’ondata di suicidi alla Telecom France: tra il 2008 e il 2010, 58 dipendenti della società di telefonia (oggi Orange) si sono tolti la vita. Tutto ciò non avveniva in una condizione di non lavoro ma di suo eccesso. E la precarietà è stata usata per mettere in concorrenza tra loro i lavoratori producendo una casistica suicidiaria inquietante. Il suicidio è trasversale. Anche la precarietà nella sfera del management determina un aumento di quei tassi», dice ancora la sociologa autrice, tra l’altro di Suicidi (Mimesis, 2014) con cui ha indagato la condizione umana nella crisi. «Una condizione che genera quel senso di “no future” e lo stato di apatia dentro cui vivono i cosiddetti Neet (Not in education, employment or training), persone che hanno rinunciato a studiare e a cercare lavoro, generazioni che vivono sui risparmi dei nonni o dei padri, che non riescono ad andare via di casa, che percepiscono come impossibile il rischio di avventurarsi».

C’è anche uno specifico femminile in questa condizione?
«Le donne sono le più precarizzate grazie al gap salariale e anche al ricatto della maternità e vivono nel rischio permanente di uscire dai giochi definitivamente magari perché devono prendersi cura dei loro padri, o dei figli».
«La rottura del legame sociale determinata dalla precarietà – prosegue Anna Simone – genera individualizzazione e, complice la crisi del sistema dei partiti, aumenta sempre di più la distanza con la politica. La precarietà non dà tempo per la politica perché il tempo che resta serve a cercare un altro lavoro. Così la società scomposta fa fatica a ricomporsi sul piano politico. La reazione a questo si traduce nella riproposizione di comunità identitarie che ci fanno sentire più protetti».
«Tuttavia c’è un doppio regime: i precari possono essere poveri o ricchi. I primi, quelli dei mini-jobs, dei vouchers, dei contratti a progetto, tendono ad essere soggetti alla depressione, perdono l’idea della vita come progetto. E’ da qui che hanno origine il crollo della natalità o comportamenti di autosabotaggio. La depressione è la resa, il rifiuto della competizione. Ma ai livelli alti del mondo del lavoro, l’eccesso di competitività dà luogo a reazioni diverse come l’uso della cocaina come droga performativa per essere all’altezza con la sfida. A volte si verificano casi di dimissioni spontanee, come l’auto licenziamento di Erin Callan, direttore finanziario di Lehman Brothers che è fuggita a vivere in campagna, da “povera”, con un compagno pompiere».

Ma è proprio invalicabile questa condizione paurosa della flessibilità?
«La scomposizione del lavoro – risponde – è anche la scomposizione della società, la condanna alla solitudine, l’assenza di legami che spinge alla ricerca di soluzioni “populiste”. Servirebbe uno strumento di supporto, un dispositivo di welfare come il reddito minimo garantito per ridare forza alle persone e ricreare la possibilità di desiderare. Desiderare il lavoro per cui ci si è formati o, comunque, un futuro. Quello che esiste ora in Italia, è un welfare per pochissimi, che esclude dall’accesso le categorie più bisognose, il popolo dei vouchers, i lavoratori autonomi, quelli con contratto a progetto. E poi c’è il fenomeno dello stagismo, del lavoro gratuito utilizzato anche dalla pubblica amministrazione e accettato col miraggio di costruirsi un curriculum. È una trasformazione radicale, anche i programmi di formazione della pubblica amministrazione non utilizzano più i moduli mansione ma il modulo performante, insegnano, cioè, a essere produttivi e flessibili. È la capitalizzazione continua del proprio saper fare».

Ne parliamo nello sfoglio di copertina su Left in edicola dal 29 ottobre

 

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