Siamo nell’era del web e dei social. Facebook conta circa più di 1,5 miliardi di utenti dei quali conosce dati anagrafici, etnia, preferenze sessuali, gusti estetici. Non serve un genio del marketing per capire che il social di Zuckerberg è praticamente il paradiso del pubblicitario e, più in generale, di chiunque voglia far arrivare il proprio prodotto ad un target specifico di persone. Il punto è che, a quanto riporta un’inchiesta di ProPublica condotta negli Stati Uniti, a volte la definizione di questo target specifico è discriminatoria soprattutto sulla base delle caratteristiche razziali. Facebook infatti permetterebbe agli inserzionisti di escludere dalla visualizzazione dei loro annunci neri, ispanici ed etnie affini a queste. Le stesse restrizioni possono avvenire per genere o orientamento sessuale.
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E se questa può sembrarci una semplice strategia di marketing, la legge federale americana invece ci ricorda che nel caso in cui i prodotti sponsorizzati siano: posizioni lavorative o case, si tratta di una vera e propria discriminazione che svantaggia le etnie o le minoranze escluse dal pubblico dell’annuncio. John Relman, avvocato per i diritti civili interpellato da ProPublica, ha commentato così: «È orribile ed è illegale. Si tratta di una violazione del Fair Housing Act». Il Fair Housing Act non è altro che una legge federale del 1968 che stabilisce che l’offerta del mercato degli immobili e in particolare delle case deve essere equo, sia per canoni d’affitto e acquisto, che per una uguale possibilità di accesso ad essi senza esclusioni per genere, razza, colore, religione, handicap, stato familiare o nazione di provenienza. Steve Satterfield, manager che si occupa delle politiche pubbliche e della privacy per Facebook, ha risposto ai giornalisti di ProPublica che l’azienda considera qualsiasi uso della piattaforma pubblicitaria in senso discriminatorio come una violazione della policy del sito. «Prendiamo una posizione forte contro gli inserzionisti che abusano nostra piattaforma» ha spiegato Satterfield «Le nostre politiche vietano di utilizzare le opzioni di targeting in senso discriminatorio e richiedono il rispetto della legge». Satterfield inoltre ha chiarito che la categoria "affinità etnica” è determinata sulla base della tipologia di contenuti che riesce a coinvolgere maggiormente un utente e che non è la stessa cosa di un’identificazione razziale. Eppure di fatto l’effetto che si produce è un discriminatorio. E la questione si fa ancora più importante se si considera che Facebook è estremamente potente e l’esclusione da un’inserzione su temi rilevanti come casa o lavoro, può comportare un effettivo svantaggio per gli utenti discriminati e una difficoltà accesso all’informazione. È probabile dunque che effettivamente il team di Zuckerberg, come dichiarato da Setterfield, non abbia sviluppato l’applicazione per targettizzare il pubblico con uno scopo deliberatamente discriminatorio, ma si suppone che un sito che abbia fatto dell’inclusione e dell’ “amicizia” due concetti fondanti del suo successo commerciale, tenga conto un po’ di più delle ricadute sociali delle proprie azioni di marketing. E delle leggi per tutelare la parità sociale.

Siamo nell’era del web e dei social. Facebook conta circa più di 1,5 miliardi di utenti dei quali conosce dati anagrafici, etnia, preferenze sessuali, gusti estetici. Non serve un genio del marketing per capire che il social di Zuckerberg è praticamente il paradiso del pubblicitario e, più in generale, di chiunque voglia far arrivare il proprio prodotto ad un target specifico di persone. Il punto è che, a quanto riporta un’inchiesta di ProPublica condotta negli Stati Uniti, a volte la definizione di questo target specifico è discriminatoria soprattutto sulla base delle caratteristiche razziali. Facebook infatti permetterebbe agli inserzionisti di escludere dalla visualizzazione dei loro annunci neri, ispanici ed etnie affini a queste. Le stesse restrizioni possono avvenire per genere o orientamento sessuale.

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E se questa può sembrarci una semplice strategia di marketing, la legge federale americana invece ci ricorda che nel caso in cui i prodotti sponsorizzati siano: posizioni lavorative o case, si tratta di una vera e propria discriminazione che svantaggia le etnie o le minoranze escluse dal pubblico dell’annuncio. John Relman, avvocato per i diritti civili interpellato da ProPublica, ha commentato così: «È orribile ed è illegale. Si tratta di una violazione del Fair Housing Act». Il Fair Housing Act non è altro che una legge federale del 1968 che stabilisce che l’offerta del mercato degli immobili e in particolare delle case deve essere equo, sia per canoni d’affitto e acquisto, che per una uguale possibilità di accesso ad essi senza esclusioni per genere, razza, colore, religione, handicap, stato familiare o nazione di provenienza.
Steve Satterfield, manager che si occupa delle politiche pubbliche e della privacy per Facebook, ha risposto ai giornalisti di ProPublica che l’azienda considera qualsiasi uso della piattaforma pubblicitaria in senso discriminatorio come una violazione della policy del sito. «Prendiamo una posizione forte contro gli inserzionisti che abusano nostra piattaforma» ha spiegato Satterfield «Le nostre politiche vietano di utilizzare le opzioni di targeting in senso discriminatorio e richiedono il rispetto della legge». Satterfield inoltre ha chiarito che la categoria “affinità etnica” è determinata sulla base della tipologia di contenuti che riesce a coinvolgere maggiormente un utente e che non è la stessa cosa di un’identificazione razziale.
Eppure di fatto l’effetto che si produce è un discriminatorio. E la questione si fa ancora più importante se si considera che Facebook è estremamente potente e l’esclusione da un’inserzione su temi rilevanti come casa o lavoro, può comportare un effettivo svantaggio per gli utenti discriminati e una difficoltà accesso all’informazione. È probabile dunque che effettivamente il team di Zuckerberg, come dichiarato da Setterfield, non abbia sviluppato l’applicazione per targettizzare il pubblico con uno scopo deliberatamente discriminatorio, ma si suppone che un sito che abbia fatto dell’inclusione e dell’ “amicizia” due concetti fondanti del suo successo commerciale, tenga conto un po’ di più delle ricadute sociali delle proprie azioni di marketing. E delle leggi per tutelare la parità sociale.