Pier Luigi Bersani l’aveva già detto, ma lo ripete perché si capisca bene. Matteo Renzi può rimanere a palazzo Chigi anche se dovesse vincere il No, il 4 dicembre, alla faccia della personalizzazione. «Se vince il No», dice infatti Bersani al Corriere, «per me Renzi può anche restare a Palazzo Chigi, magari un po’ acciaccatino... Io non ho problemi, basta che stiamo meno chiusi, meno comandini, meno arroganti e meno inchinati». Ma perché Bersani dice così, abbondando in bersanese? Perché indica a Renzi la via per restare comunque a palazzo Chigi, quando logica più elementare vorrebbe che la minoranza dem approfittasse di un'ipotetica vittoria del No per ridimensionare Renzi? Per una serie di ragioni. La prima è quella che spiega Bersani stesso, forte del fatto di non aver partecipato all’ultimo voto dell’Italicum e quindi certo di schivare le accuse di chi - non senza ragioni - dice che ora si vuole cambiare la legge elettorale perché potrebbe favorire Grillo. «Il Sì porta instabilità, il No invece è il time out, è un anno di tregua in cui, buttato a mare l’Italicum, fai le leggi elettorali per Camera e Senato, plachi il Paese e ti riorganizzi», dice l'ex segretario. E Bersani sposa così la tesi di chi - compresa anche la banca d’affari Mediolanum - pensa che sia proprio la vittoria del Sì a «spianare la strada», come dice Roberto Speranza, «ai populismi». La seconda ragione per cui Bersani concede a Renzi di scegliere, se vuole, di rimanere a palazzo Chigi, è più tattica, nell’ottica dell’eterno congresso del Pd. Concedendo infatti a Renzi di restare a palazzo Chigi, Bersani dichiara di preferire il partito, di volere dopo il referendum una segreteria più condivisa, magari di garanzia, che accompagni il Pd al prossimo congresso, che si farà prima delle elezioni 2018, dentro dunque «l’anno di tregua», come lo chiama Bersani. Che sa benissimo, ovviamente, che l’anno di tregua, con Renzi «acciaccatino» a palazzo Chigi, è un anno che renderebbe Renzi una stella assai meno brillante e magari disposto a concedere la separazione del ruolo di candidato premier e segretario del Pd, per statuto oggi coincidenti. È per questo che al momento i più scommettono che Renzi lascerà invece palazzo Chigi e si terrà semmai il partito, in caso di vittoria del No. Per non farsi rosolare. Bersani lo sa e infatti dice: «Se invece Renzi se ne vuole andare, sarà il presidente Mattarella a decidere il da farsi». Insomma: a Renzi - che nel mentre chiude a ipotesi rimpasti, della seria “se resto, resto coi miei, non vi pensate di mettermi sabotatori in casa come io ho fatto con Marino” - Bersani ricorda che le urne sono comunque lontane. E lo sono anche se vince il Sì, perché è sempre Mattarella a dover decidere.

Pier Luigi Bersani l’aveva già detto, ma lo ripete perché si capisca bene. Matteo Renzi può rimanere a palazzo Chigi anche se dovesse vincere il No, il 4 dicembre, alla faccia della personalizzazione. «Se vince il No», dice infatti Bersani al Corriere, «per me Renzi può anche restare a Palazzo Chigi, magari un po’ acciaccatino… Io non ho problemi, basta che stiamo meno chiusi, meno comandini, meno arroganti e meno inchinati».

Ma perché Bersani dice così, abbondando in bersanese? Perché indica a Renzi la via per restare comunque a palazzo Chigi, quando logica più elementare vorrebbe che la minoranza dem approfittasse di un’ipotetica vittoria del No per ridimensionare Renzi? Per una serie di ragioni. La prima è quella che spiega Bersani stesso, forte del fatto di non aver partecipato all’ultimo voto dell’Italicum e quindi certo di schivare le accuse di chi – non senza ragioni – dice che ora si vuole cambiare la legge elettorale perché potrebbe favorire Grillo. «Il Sì porta instabilità, il No invece è il time out, è un anno di tregua in cui, buttato a mare l’Italicum, fai le leggi elettorali per Camera e Senato, plachi il Paese e ti riorganizzi», dice l’ex segretario. E Bersani sposa così la tesi di chi – compresa anche la banca d’affari Mediolanum – pensa che sia proprio la vittoria del Sì a «spianare la strada», come dice Roberto Speranza, «ai populismi».

La seconda ragione per cui Bersani concede a Renzi di scegliere, se vuole, di rimanere a palazzo Chigi, è più tattica, nell’ottica dell’eterno congresso del Pd. Concedendo infatti a Renzi di restare a palazzo Chigi, Bersani dichiara di preferire il partito, di volere dopo il referendum una segreteria più condivisa, magari di garanzia, che accompagni il Pd al prossimo congresso, che si farà prima delle elezioni 2018, dentro dunque «l’anno di tregua», come lo chiama Bersani. Che sa benissimo, ovviamente, che l’anno di tregua, con Renzi «acciaccatino» a palazzo Chigi, è un anno che renderebbe Renzi una stella assai meno brillante e magari disposto a concedere la separazione del ruolo di candidato premier e segretario del Pd, per statuto oggi coincidenti.

È per questo che al momento i più scommettono che Renzi lascerà invece palazzo Chigi e si terrà semmai il partito, in caso di vittoria del No. Per non farsi rosolare. Bersani lo sa e infatti dice: «Se invece Renzi se ne vuole andare, sarà il presidente Mattarella a decidere il da farsi». Insomma: a Renzi – che nel mentre chiude a ipotesi rimpasti, della seria “se resto, resto coi miei, non vi pensate di mettermi sabotatori in casa come io ho fatto con Marino” – Bersani ricorda che le urne sono comunque lontane. E lo sono anche se vince il Sì, perché è sempre Mattarella a dover decidere.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.