Autore di tre album, riscoperti dopo la sua morte, è il genio romantico che ha ispirato Buckley, Sylvian, i Cure. Ma anche Meldhau. Ecco come lo racconta Stefano Pistolini

Prima di Jeff Buckley, prima di David Sylvian, prima di molti altri c’era Nick Drake, talento schivo e sensibile, autore di testi poetici e di canzoni che richiedavano un accordo sempre diverso e, anche per questo, consone alla dimensione dal vivo. Ma lui, sguardo basso  sul palco e un’intensità da brividi le cantava  in locali fumosi, dove la gente parlava e rideva tre toni sopra la sua voce gentile, quasi un sussurro. Se ne andò poco più di quarant’anni fa, era Il 25 novembre del 1974,  aveva 27 anni e non aveva conosciuto il successo che meritava. Ma poi i suoi brani allusivi, a volte criptici, densi di riferimenti letterari hanno incontrato un ampio pubblico di estimatori, ispirando più generazioni di musicisti.  Per  capire qualcosa di più del misterioso Nick Drake che ha attraversato come una meteoria il mondo della musica abbiamo chiesto a Stefano Pistolini di raccontarcelo mentre torna in libreria pubblicata da Elliot la sua storica biografia  Le provenienze dell’amore. 

Perché Nick Drake non fu capito negli anni Sessanta?

Tecnicamente perché non fu mai capace di promuovere il suo lavoro secondo quelli che erano i metodi del tempo, che imponevano una massacrante attività “live”, che lui, caratterialmente e psicologicamente era del tutto inadatto a sopportare. Fece un paio di concerti e se ne tornò a casa. Ma poi anche perché il periodo della sua attività discografica coincideva con un livello eccezionale delle uscite discografiche, in particolare in Gran Bretagna, e il mercato era estremamente selettivo verso l’alto. Per starci dentro bisognava spendersi senza requie ed essere sempre presenti in ogni forma promozione. Drake era il contrario: in tutta la vita fece una sola intervista e peraltro fu un disastro.

La forza di Nick Drake  è l’ipirazione poetica, il tono malinconico. Ma anche la cura e l’originalità di ogni brano che richiedeva un accordo diverso?

E’ un artista complesso. Convoglia la sensibilità di un giovane poeta romantico inglese dell’Ottocento con i malesseri di un ragazzo borghese che si muove nella turbolenta Londra di fine anni Sessanta. La sua musica contiene grandi citazioni folk, rende omaggio ai suoi ascolti di Dylan, ma poi inventa una strada completamente personale. Le sue liriche provano a sintetizzare gli stati d’animo di quella esistenza, sempre sospesa tra paura ed eccitazione, con l’aggravante di essere un tremendo ipersensibile.

Che significato ha avuto nel tuo percorso di critico e scrittore?

E’ stato un arista fondamentale per la mia formazione, caratteriale prima che culturale. Intuivo qualche affinità e ammiravo il mondo che descriveva e rappresentava. In quegli anni l’Inghilterra per i ragazzi era una chimera lontana e desideratissima. C’era tutto quello che volevamo e per ciascuno quel desiderio avevano una declinazione che si adattava al suo carattere. Quando ho sentito le prime volte Nick, lui era là e per me rappresentava tutto ciò in cui avrei voluto immergermi.

La sua “leggenda” poco alla volta si è diradata, anche per il valoroso contributo di sua sorella Gabrielle, che di recente ha pubblicato i diari di famiglia e tanti altri reperti d’epoca che contribuiscono a fare chiarezza e ad avvicinarsi alla verità nella storia di Nick Drake. Man mano che se ne prende visione è come se la sua figura acquisisce normalità, e certamente umanità. Era un genio musicale, ma alla fine non era né un santo né un martire, ma un ragazzo disfunzionale come buona parte di noi.

Dike Drake ha ispirato anche un grande jazzista come Brad Mehldau. Che interpretazione ne ha data?

Valorosa, ma pur sempre una rilettura tecnicistica, che comporta l’appropriazione di un materiale artistico che, nel caso di Drake come di alcuni altri musicisti, è completamente privato, connesso intimamente con la sua persona, la sua voce, le sue atmosfere.

 Chi sono oggi i musicisti più vicini alla sua musica?

Non si può fare un elenco sarebbe sterminato. Ormai la sua musica, soprattutto il suo approccio compositivo è un vero luogo comune del songwriting. La cosa interessante è che tutto ciò accade 42 anni dopo che è morto e 44 dopo la pubblicazione del suo ultimo album. Che del resto, se ascoltato da chi non lo sa, ha una prerogativa magica: sembra registrato ieri, non paga prezzi al tempo che passa. E’ quella che credo possa essere definita la dimensione del classico.


Che cosa hai scoperto mentre facevi le ricerche per questo libro?