Bisogna votare solo sul merito, dicono un po' tutti, salvo poi caricare il voto di mille conseguenze politiche. Che forse allora non bisogna ignorare

Bisognerebbe votare nel merito, vero. Ma con la campagna elettorale più brutta di sempre, concentrarsi è difficile (e sempre più lo sarà, non illudetevi: i brutti toni della campagna, come vi racconteremo con Michele Prospero nel prossimo numero di Left da sabato in edicola, saranno la norma anche dopo il 4 dicembre). Bisognerebbe votare nel merito della riforma costituzionale, ma così come non si può votare senza pensare anche all’Italicum – la legge elettorale che è stata pensata come seconda fondamentale gamba della nuova costituzione, senza il cui superpremio non ci sarebbe nessun «vincitore certo» e la cui modifica è quindi improbabile, e spiace per Cuperlo – non si può prescindere, temiamo, dalle conseguenze politiche del voto.

È sbagliato? Forse. Ma forse no, almeno a giudicare da quando ci puntano entrambi i fronti. Renzi, ad esempio, non dice più di volersi ritirare a vita privata in caso di sconfitta (ma l’ha detto, eccome se l’ha detto), ma dice che con il No arriverà un «governo tecnico». Minaccia, più che dice, visto che tutto dipende da lui: un altro governo, infatti, può arrivare solo se lui si dimette e solo se il suo Pd accorda la fiducia al Padoan o al Franceschini di turno. D’Alema, di contro, ricorda che di premier che si è dimesso dopo un risultato elettorale che non c’entrava nulla con palazzo Chigi «ce n’è soltanto uno» (lui, ovviamente, con le regionali del 2000). E così facendo svela l’ovvio: a molti protagonisti e elettori del fronte del No non dispiacerebbe affatto se Renzi aprisse veramente una crisi di governo. Anzi.

Facciamo dunque un punto su quelli che sono i possibili scenari, le conseguenze politiche, post 4 dicembre.

Cominciamo dalla vittoria del No. Vince il No e Renzi si dimette, è l’ipotesi più scolastica, quasi scontata a sentire ciò che da mesi – con toni a volte più alti, altri più bassi – dice lo stesso presidente del Consiglio. Nei palazzi romani e nelle redazioni dei giornali, però, in tanti ormai scommettono sul fatto che, vincente il No, Renzi resterà comunque a palazzo Chigi. La minoranza dem glielo chiederà (per rosolarlo meglio, dicono i maligni) perché sarebbe la soluzione istituzionalmente più corretta, senza personalizzazioni di un voto costituzionale; e lui potrebbe alla fine valutare di restare, «per responsabilità», dirà, visto che entro il 31 dicembre va approvata la legge di bilancio pena l’esercizio provvisorio. A quel punto anticiperà però il congresso del Partito democratico, per affermarsi almeno lì, rispolverare il profilo del vincente e puntare rapido al 2018.

Se invece si dimette e rifiuta un reincarico, però, bisogna fare un altro governo, perché un governo serve per portare a casa la legge di bilancio, come detto, e per dare il tempo al parlamento di varare una nuova legge elettorale. Sarà un governo tecnico come dice (minaccia) Renzi? Dobbiamo aspettarci un incubo alla Monti e la Troika come vorrebbe farci credere il capo dei dem (spingendoci sul Sì)? Questo non è affatto detto (come non è detto, è una valutazione che ognuno di noi deve fare, che il governo Monti sia peggio di quello Renzi). Quello che arriverà dopo Renzi, è invece sicuro, dipende soprattutto da Renzi e dal suo Pd, fondamentali per comporre una nuova (o la stessa, più probabilmente) maggioranza.

Tutto diverso è ovviamente se vince il Sì. Renzi resta? Diciamo che non ci sarebbero ragioni, soprattutto istituzionali – già carenti anche nel caso di vittoria del No – per lasciare palazzo Chigi una volta vinto il 4 dicembre. E così Renzi dovrebbe fare. Anticipando sempre però – questa volta per non perdere lo slancio – il congresso del Pd. Ecco che a quel punto, se vince il Sì, le elezioni restano comunque l’obiettivo, perché Renzi vorrà al più presto rinnovare il parlamento dove ancora gli tocca fare i conti con gruppi parlamentari eletti ai tempi della segreteria Bersani. A quel punto, però, si vota col famoso combinato disposto (solo Cuperlo crede nella promessa di Renzi di modificare l’Italicum) e questo, sì, espone agli scenari più imprevedibili. Sicuri che, col meccanismo del ballottaggio, non finisca come a Torino?

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Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.