Ascoltati i vertici della Repubblica (tra cui Grasso, un papabile), ora tocca ai partiti. Ma gli occhi sono tutti sul Pd, di cui Renzi non è più sicuro di avere il controllo. Qualcuno (tipo Franceschini) potrebbe pensare di sfilargli palazzo Chigi, e trattarlo come lui trattò Letta

Grasso, poi Boldrini, infine Napolitano, il presidente emerito. La prima giornata di consultazioni al Quirinale è tutta formalità, una liturgia da giorno festivo, su cui si potrebbe quasi sorvolare, non fosse che il primo ad entrare nello studio della vetrata, da Sergio Mattarella, Pietro Grasso, è anche uno dei papabili per la successione a Matteo Renzi. Un nome buono per lo scenario del «governo di responsabilità», come l’ha chiamato lo stesso Renzi. Un governo senza alcuna pretesa politica (e che per questo dovrebbe essere, secondo i paletti posti da Renzi nella direzione Pd, sostenuto da «tutti», cioè almeno dall’attuale maggioranza più Berlusconi) che accompagni il Paese a rapide elezioni.

È un nome che resta in ballo, quello di Grasso, che fa aumentare le sue quotazioni non rilasciando dichiarazioni, alla fine del colloquio (cosa che però fa anche Boldrini). Ma non è quello lo scenario che va per la maggiore. È vissuta, l’ipotesi Grasso, come quella dell’ultimo minuto, da scegliere quando tutte le altre saranno state scartate, per veti ogni volta diversi.

Perché, ad esempio, nel Pd sono in molti a volere un governo più politico. Ci sono renziani (anche vicinissimi al premier) che chiedono ancora di riflettere sull’ipotesi di un Renzi bis, ovviamente, ma ci sono soprattutto quelli che vedono nella necessità di dover fare un governo (e nelle prime dichiarazioni con cui Renzi si è chiamato fuori) la possibilità di una vita.

Tipo Dario Franceschini, dicono i maligni, che se arrivasse a palazzo Chigi potrebbe prenderci gusto, restare fino al 2018 e poi chissà, a quel punto tentare di proseguire, stravolgendo gli equilibri interni nel Pd. Equilibri che stanno già cambiando e che certo cambierebbero (fosse anche solo per gli incarichi da distribuire) in un anno e più di governo.

Per Renzi questo scenario (o uno simile, tipo Calenda, tipo Delrio) è il peggiore. Sono premier troppo ingombranti, soprattutto ora che lui non può certo ripetere lo schema Letta, silurando quotidianamente il governo, che in questo caso avrebbe lui, come segretario, contribuito a far nascere (non fu così per Letta: all’epoca c’era Bersani). Non puoi girar l’Italia e magari fare le primarie del tuo partito parlando male del governo che da segretario hai fatto nascere. Se quello è il punto di caduta, insomma, e non un Padoan o appunto un Grasso, molto meglio restare lui, e smentirsi un’ennesima volta, adducendo l’onere del «disbrigo degli affari correnti». Molto meglio il Renzi bis, che dovrebbe piacere a Mattarella, che se la caverebbe chiedendo al dimissionario di ripresentarsi alle camere e verificare i numeri, ridimensionando di molto la crisi. I numeri sappiamo già che ci sono (ci sono stati sulla legge di bilancio, sarebbe clamoroso non ci fossero più) e Renzi avrebbe la certezza di gestire (per quanto possibile) la tempistica del voto, sganciandosi nuovamente quando si sentirà pronto.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.