Ora, Atene dovrà tornare a prendersi carico delle persone entrate in Europa attraverso il loro territorio, per poi trasferirli in altri Paesi dell'Unione. Lo ha deciso la Commissione europea. Ma il 2017 è anche anno di elezioni politiche, proprio nei Paesi Ue dove i partiti di estrema destra hanno fatto della crisi migratoria un cavallo di battaglia

Da metà marzo 2017 torneranno a funzionare, almeno parzialmente, i meccanismi di trasferimento di migranti, previsti dal trattato di Dublino. Lo ha annunciato giovedì 8 dicembre, durante una conferenza stampa, il Commissario europeo alle migrazioni, Dimitris Avramopoulos.

La notizia ha un significato particolare per la Grecia. La decisione della Commissione implica infatti che Atene dovrà di nuovo prendersi carico delle persone entrate in Europa attraverso il loro territorio, ma che hanno poi si sono spostate “illegalemente” in altre parti del Continente. In altri termini, gli Stati membri dell’Ue potranno cominciare di nuovo a “trasferire” i migranti “illegali” fermati sul proprio territorio verso i Paesi di ingresso.

Va specificato che l’azione esclude casi di migranti minori e in cattive condizioni di salute. Inoltre, la misura non ha un valore retroattivo e i singoli trasferimenti verso i Paesi di ingresso dovranno essere valutati caso per caso, sulla base dell’effettiva capacità di garantire alle persone una sistemazione a norma.

Ma la notizia ha comunque scatenato polemiche. Molti si chiedono infatti se la Grecia sia in grado di gestire un flusso “di ritorno” dagli altri Stati membri dell’Ue, nel momento in cui è ancora occupata a gestire gli arrivi via Mediterraneo. Inoltre, solo poco più di un anno fa, il Consiglio Ue aveva approvato un piano strategico per alleggerire la pressione della crisi migratoria in Italia e Grecia, con l’obiettivo di trasferire, nell’arco di due anni, 160mila persone verso gli altri Paesi membri dell’Ue.

Durante il suo discorso, Avramopoulos ha giustificato la decisione della Commissione sulla base di diversi fattori. In primo luogo, ha sottolineato i progressi fatti finora nel quadro del piano di trasferimento dei migranti approvato l’anno scorso. In secondo luogo, ha ricordato che, in questo momento, la Grecia deve fare fronte a meno di 100 arrivi al giorno. In ultimo, ha elogiato Atene perché sarebbe riuscita a modernizzare le proprie strutture accoglienza e permanenza sul proprio territorio nazionale. Per inciso, gli stessi complimenti sono stati indirizzati anche all’Italia.

Eppure, a livello numerico il quadro appare meno chiaro. Secondo il sesto rapporto della Commissione europea sul trasferimento dei migranti tra Paesi Ue, a fine settembre 2016, la Grecia contava un totale di circa 60mila migranti sul proprio territorio. Di questi, 13mila collocati nei territori insulari e 46mila sulla terraferma. A confronto, i circa 10mila migranti che sono stati trasferiti in altri Paesi membri dell’Ue tra il 2015 e il 2016 – gli stessi di cui si vanta di cui va fiero Avramopoulos – non fanno certo una grande figura. Ben inteso, non è certo colpa della Commissione se gli altri Paesi dell’Ue non accettano trasferimenti, o se i Paesi di ingresso non riescono a velocizzare i processi di identificazione. Ma in ogni caso, l’argomento non regge la prova dei fatti.

Certo, qualcuno potrebbe dire che i problemi vanno visti in prospettiva. E in fatti, Avramopoulos – il quale ovviamente sa che siamo lontani dai 160mila trasferimenti nell’arco di due anni – ha invitato gli Stati membri dell’Ue ad accelerare. Per quanto riguarda la Grecia, vorrebbe dire passare dall’attuale “ritmo” di mille trasferimenti al mese a circa 3mila, entro l’aprile del 2017. «Non dobbiamo guardarci allo specchio, ma intensificare lo sforzo», ha ammonito il Commissario europeo.

Ma nonostante gli auguri della Commissione, è legittimo chiedersi perché Orban – il quale ha addirittura organizzato (e perso) un referendum sul tema –  e gli altri capi di governo dell’Est, dovrebbero cambiare idea aprendo le loro porte ai migranti. Inoltre, il 2017 è anno di elezioni politiche proprio nei Paesi Ue dove i partiti di estrema destra hanno fatto della crisi migratoria un cavallo di battaglia. Infine, è lo stesso Avramopoulos ad aver ammesso, durante il suo discorso, che «non è la Commissione a prendere la decisione finale riguardo ai trasferimenti, ma che la concretizzazione dipende sempre e comunque dalle singole corti nazionali di riferimento».

Insomma, se i numeri attuali non reggono, tanto meno le aspettative per il 2017 in un certo senso. Ivan McGowan, Direttore dell’ufficio europeo di Amnesty International, ha affermato che «i migranti sulle isole greche affrontano situazioni di sovraffollamento, mancanza d’acqua, scarso riscaldamento e attacchi violenti di natura discriminatoria», concludendo, quasi ovviamente, che «la pressione sulla Grecia dovrebbe essere alleggerita, non aumentata».

Intanto, anche gli intellettuali in Europa si sono mossi sul tema. A Lisbona, a novembre si è tenuto l’incontro “Vision Europe”, durante il quale i più prestigiosi think tank europei hanno discusso e firmato una dichiarazione comune contenente proposte di policy per risolvere la crisi migratoria. Quattro i punti principali del piano d’azione proposto.

Innanzitutto, vanno create le condizioni politiche per sviluppare una strategia europea prospettica e razionale. Ciò vuol dire creare un dibattito trans-europeo attraverso lo sviluppo di strutture “di riflessione” comuni. Questo dibattito dovrebbe favorire un dialogo che si regge sull’evidenza dei fatti e che riesce a promuovere la fiducia reciproca tra Stati, nonché la volontà politica per risolvere il problema.

In secondo luogo, è necessario sviluppare un meccanismo equo e sostenibile per gestire i flussi all’interno dell’Ue. Ciò vuol dire sviluppare politiche di investimento sociale focalizzate sulla prevenzione. Vanno quindi coinvolti tutti i centri istituzionali e politici della “catena migratoria”: dalle comunità di partenza, a quelle di arrivo, passando per quelle di transito. Inoltre, sebbene la distinzione tra migranti economici e rifugiati possa avere un qualche senso, la dicotomia risulta obsoleta rispetto alla varietà delle cause per cui le persone si spostano e migrano (per esempio, le crisi ambientali ed ecologiche).

In terzo luogo, bisogna promuovere il lavoro e l’educazione come strumenti per l’integrazione dei migranti nelle comunità di arrivo. A tale proposito, va tenuto conto del “ritorno” sociale ed economico di lungo periodo, determinato dal sentimento di appartenenza delle seconde e terze generazioni che crescono nei territori di accoglienza.

Infine, è necessario creare le condizioni per una mobilitazione sociale allargata. L’integrazione non passa infatti soltanto per misure burocratiche, ma anche per la capacità delle comunità di arrivo di gestire la diversità culturale. Va ricordato che, alla base della costituzione della società europea, risiede la differenza delle sue culture e non una sorta di nazionalistica e mitologica unità.