Renzi ne è convinto: la vittoria del No sarà presto dimenticata. Basta far finta che non ci sia mai stata, trasformare il congresso Pd in un plebiscito alla sua portata e andare rapidamente a elezioni. Complice una minoranza divisa, il piano sulla carta funziona. Peccato che esistano gli elettori

È utile fare un punto sulla nascita del governo Gentiloni – che è poi un governo Renzi senza Renzi e senza manco la vergogna, un «governo in continuità», come dice il nuovo presidente del Consiglio, «orgoglioso» di poter continuare «il lavoro di innovazione del precedente governo». È utile per capire cosa ha in mente Renzi e come evolverà la nuova sfida politica che si aprirà questa domenica, quando l’assemblea del Pd dovrebbe aprire ufficialmente, come chiesto da Renzi, il congresso, e comincerà la lunga campagna di Renzi per riconquistare lo smalto perduto (perché l’ha perduto, sì, anche se fa finta di nulla).

La continuità, dicevamo, e dice ancora Gentiloni, sarà nelle politiche, ma è ben evidente, nel caso fosse sfuggita, anche «nella struttura stessa del governo». Quasi tutti i ministri, infatti, sono stati confermati, ad eccezione di Stefania Giannini, che paga il suo esser rimasta, eletta con la fu Scelta Civica, priva di padrini politici. Gli altri ci sono tutti, compresa Maria Elena Boschi che cambia solo postazione, lei che come Renzi aveva detto che se avesse perso il referendum sarebbe tornata alla sua professione: l’avvocato in Toscana. E invece è la nuova sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, un ruolo meno mediatico ma chiave: tutti i dossier del governo passeranno per le sue mani, per lei, vigile sentinella sulla fedeltà di Paolo Gentiloni, che però è al fianco di Renzi già dalle prime primarie, e quindi fa stare abbastanza tranquillo il ragazzo. È stato scelto per questo, d’altronde.
Un governo di responsabili è quello che ha ottenuto la fiducia mercoledì, nato perché «non si poteva fare altro», dicono i vertici dem, come se non si potesse far altro che ignorare l’esito referendario, a cui si risponde con le sole dimissioni di Renzi, lasciando tutto il resto immutato. Anzi. Segnaliamo, in questo breve punto, la promozione di Anna Finocchiaro, che se Boschi era la “mamma” della riforma, lei ne era la “nonna”, presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, che ha portato al voto il testo, tra canguri, emendamenti e voti di fiducia. Sarà ministro ai Rapporti con il Parlamento: la giusta promozione. E una promozione è pure quella di Valeria Fedeli, senatrice, già sindacalista Cgil, che, arrivando nell’ufficio che fu di Giannini, dovrebbe servire – è l’idea – a ricucire con professori e docenti, a cui la Buona scuola non è parsa poi tanto buona. Anche lei, come Renzi, Boschi e un po’ tutti i sostenitori del Sì, nella disperata rincorsa referendaria, aveva annunciato di esser pronta a rinunciare a ogni poltrona: «Il giorno dopo, se ha vinto il No, ne devi prendere atto, non puoi andare avanti. È giusto rimettere il mandato, per il premier ma anche per i parlamentari». Tutto cancellato: nel nome della responsabilità, si dice, indicando come sempre «l’indisponibilità delle altre forze politiche», l’irresponsabilità dei 5 stelle.

Unica crepa nel compatto racconto la apre Marianna Madia, a margine della cerimonia di giuramento. Boschi ostenta un sorriso, Madia no, non esagera, non le pare il caso: «Mi sembra tutto un po’ malinconico», dice ai cronisti, «scrivetelo pure. Mi chiedo come saremo percepiti dagli italiani…». Madia, in sostanza, ammette che Alessandro Di Battista non ha tutti i torti, quando, con il solito fare teatrale, voce carica, che suona quasi come un pianto, ripete a ogni telecamera: «Se fossi cinico come voi, dovrei sperare in altri mille governi così, in mille truffe come questa: il nostro consenso non può che aumentare».

Ma anche Madia è lì, responsabile, immortalata nelle foto di rito. Foto scattate in fretta, perché bisogna dare il senso dell’urgenza e quindi non si aspetta la consueta mezza giornata tra la riserva sciolta e il giuramento. Gentiloni è entrato da Mattarella alle 17.30 e alle 20 già stava giurando. Nel mezzo c’è stato il tempo anche per una piccola crisi, con la protesta dei verdiniani che speravano di esser premiati con un ministero per i servigi finora offerti (grande era la disponibilità espressa al Colle: «Siamo pronti a qualsiasi soluzione, compreso un Renzi bis», aveva detto Verdini) e invece hanno finito con rilasciare un comunicato che in altri tempi avrebbe richiesto ore di trattative: «Senza adeguata rappresentanza, da noi niente fiducia». Ma, siccome il Pd per ora è compatto – la direzione ha detto sì all’unanimità, con la minoranza che chiede però un segno di discontinuità – non è un problema. Al Senato i numeri ci sono e quando ce ne sarà bisogno – e se non sarà ancora arrivato il momento di staccare la spina – l’aiuto di Verdini non mancherà. Si accettano scommesse: «Noi pensiamo che Renzi sia ancora il nostro interlocutore, l’unico leader che c’è in Italia, come dice Berlusconi», dice il senatore di Ala Lucio Barani, anticipandoci il finale del film.

L’articolo continua su Left in edicola dal 17 dicembre

 

SOMMARIO ACQUISTA

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.