Faceva troppe domande. «E' normale, ogni buon egiziano avrebbe fatto lo stesso. Faceva troppe domande». Dice proprio così, Mohamed Abdallah, con orgoglio, in un'intervista all'edizione araba dell'Huffington Post. Il capo del sindacato degli ambulanti, indicato già a marzo scorso da un'amica di Regeni (Hoda Kamel, dell’Egyptian Center for Economic and social rights) come un informatore dei servizi segreti, confessa tranquillamente il suo operato a un giornale. Sarebbe stato lui a consegnare il ricercatore Giulio Regeni, ucciso e torturato. «Sì, l’ho denunciato e l’ho consegnato agli Interni». E dunque ad Al Sisi. E' la cosa più normale del mondo, sembra dire. «Siamo noi che collaboriamo con il ministero degli Interni. Solo loro si occupano di noi ed è automatica la nostra appartenenza a loro. Quando viene un poliziotto a festeggiare con noi a un nostro matrimonio, mi dà più prestigio nella mia zona». Chi ha ucciso Giulio? «Probabilmente chi lo ha mandato qui», dice nell'intervista riportata dall'Espresso. «Quando io l’ho segnalato ai servizi di sicurezza, facendo saltare la sua copertura, lo avranno ucciso». Risponde l'uomo che non a caso Regeni nei suoi appunti definiva "una miseria umana". Regeni si occupava, per conto dell'Università di Cambridge, proprio del mondo sindacale egiziano. Giulio, «un ragazzo straniero che faceva domande strane e stava con gli ambulanti per le strade, interrogandoli su questioni che riguardano la sicurezza nazionale - prosegue - . L’ultima volta che l’ho sentito al telefono è stato il 22 gennaio, ho registrato la chiamata e l’ho spedita agli Interni». Ovvero solo tre giorni prima del sequestro del ricercatore italiano, avvenuto il 25 gennaio del 2016. Il corpo, rinvenuto il 3 febbraio lungo una strada del Cairo, porta con sé gli evidenti segni di torture ripetute. Ferite riconducibili a interrogatori, perché ripetute ogni 10-14 ore. E' quasi un anno che la famiglia di Giulio chiede con forza e coraggio, verità sulla morte del figlio.

Faceva troppe domande. «E’ normale, ogni buon egiziano avrebbe fatto lo stesso. Faceva troppe domande». Dice proprio così, Mohamed Abdallah, con orgoglio, in un’intervista all’edizione araba dell’Huffington Post. Il capo del sindacato degli ambulanti, indicato già a marzo scorso da un’amica di Regeni (Hoda Kamel, dell’Egyptian Center for Economic and social rights) come un informatore dei servizi segreti, confessa tranquillamente il suo operato a un giornale. Sarebbe stato lui a consegnare il ricercatore Giulio Regeni, ucciso e torturato. «Sì, l’ho denunciato e l’ho consegnato agli Interni». E dunque ad Al Sisi. E’ la cosa più normale del mondo, sembra dire.
«Siamo noi che collaboriamo con il ministero degli Interni. Solo loro si occupano di noi ed è automatica la nostra appartenenza a loro. Quando viene un poliziotto a festeggiare con noi a un nostro matrimonio, mi dà più prestigio nella mia zona».
Chi ha ucciso Giulio? «Probabilmente chi lo ha mandato qui», dice nell’intervista riportata dall’Espresso. «Quando io l’ho segnalato ai servizi di sicurezza, facendo saltare la sua copertura, lo avranno ucciso». Risponde l’uomo che non a caso Regeni nei suoi appunti definiva “una miseria umana”.

Regeni si occupava, per conto dell’Università di Cambridge, proprio del mondo sindacale egiziano. Giulio, «un ragazzo straniero che faceva domande strane e stava con gli ambulanti per le strade, interrogandoli su questioni che riguardano la sicurezza nazionale – prosegue – . L’ultima volta che l’ho sentito al telefono è stato il 22 gennaio, ho registrato la chiamata e l’ho spedita agli Interni». Ovvero solo tre giorni prima del sequestro del ricercatore italiano, avvenuto il 25 gennaio del 2016.
Il corpo, rinvenuto il 3 febbraio lungo una strada del Cairo, porta con sé gli evidenti segni di torture ripetute. Ferite riconducibili a interrogatori, perché ripetute ogni 10-14 ore.
E’ quasi un anno che la famiglia di Giulio chiede con forza e coraggio, verità sulla morte del figlio.

Impicciarsi di come funzionano le cose, è più forte di lei. Sarà per questo - o forse per l'insanabile e irrispettosa irriverenza - che da piccola la chiamavano “bertuccia”. Dal Fatto Quotidiano, passando per Narcomafie, Linkiesta, Lettera43 e l'Espresso, approda a Left. Dove si occupa di quelle cose pallosissime che, con suo estremo entusiasmo invece, le sbolognano sempre: inchieste e mafia. E grillini, grillini, grillini. Dalla sua amata Emilia-Romagna, torna mestamente a Roma, dove attualmente vive.