Ci mancherà il suo sguardo di fuoco, appassionato e lucido. L'anno si apre con una grande perdita per il mondo della cultura. Romanziere, saggista, giornalista, sceneggiatore, disegnatore, storyteller di sé diceva: «sono un narratore perché so ascoltare»

Ci mancherà il suo sguardo di fuoco, appassionato e lucido. Ci mancherà il suo slancio idealista, il suo talento di outsider nel leggere le opere d’arte in modo profondo, mettendo  a valore una competenza eclettica e  multidisciplinare. L’ anno nuovo è cominciato con una grande perdita, se ne è andato John Berger, critico, poeta, giornalista, sceneggiatore, disegnatore, storyteller (di sé diceva: «sono un narratore perché so ascoltare»). Non amava le interviste, ma parlare sì. E fino a quando la malattia non glielo ha impedito, anche alla soglia dei novant’anni, generosamente  ha partecipato a incontri e festival ( indimenticabili i suoi interventi al Festivaletteratura di Mantova e a quello di Internazionale), complice Maria Nadotti che ha avuto il merito di farlo conoscere al pubblico italiano.

E soprattutto ha scritto moltissimo, non solo su arte e fotografia (Capire una fotografia), di politica, contro le dittature, compresa quella del capitalismo (Contro i nuovi tiranni). E poi  inaspettati e potenti romanzi come quello uscito in Italia per i tipi di Neri Pozza, dal laconico titolo G (con gli valse il Man Booker Prize nel 1972) e poi scritti su temi quotidiani, apparentemente banali, come il fumo, che nella sua visione diventa una metafora della solitudine. Proprio a questo tema è dedicato il suo ultimo libro,  pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri. Mentre il Saggiatore ha da poco ripubblicato Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia e quotidianaità che ripropone i testi della serie televisiva realizzata con la BBC. Al centro di tutta l’opera di Berger c’è la riflessione sul guardare, sullo statuto dell’immagine, sulla percezione visiva – attività che il critico e scrittore londinese non considerava solo dal punto di vista fisico e intellettuale, ma anche dal punto di vista emotivo  -, sullo statuto dell’immagine, per il rapporto che si crea tra chi narra attraverso le immagini, ciò che da esse è narrato e chi ne fruisce. È questo uno dei campi tematici a lui più cari che ha a lungo indagato; molti dei testi raccolti in Del guardare risalgono agli anni Sessanta e Settanta, eppure sono oggi attualissimi. Accanto alla sua attività saggistica, narrativa, poetica, giornalistica, di autore teatrale e sceneggiatore cinematografico (collaborò anche  con il regista Alain Tanner), da non dimenticare, è anche la sua opera grafica, da abile disegnatore. Il disegno è era per lui una forma di attenzione ulteriore alla realtà, un’altra ricognizione del mondo. Quasi sempre in Berger la meditazione sull’arte si fa critica del presente e della politica e il suo Taccuino di Bento è anche una requisitoria, violentissima, contro  l’omologazione che è arrivata insieme alla globalizzazione. Da attento lettore di Marx, John Berger  ha scritto pagine corrosive  sul potere informe, senza volto,  del capitalismo, al quale contrappone la rivolta della scrittura, un linguaggio ribelle alle compartimentazioni, agli steccati, che limitano lo sguardo. I suoi libri nascono da un profondo «rifiuto di lasciarsi azzerare e ridurre a un silenzio forzato».  La sua opposizione all’ideologia iper capitalista in cui l’Occidente  è immerso si tradusse nella scelta di andare a vivere in paesaggi intonsi e lontani. Da più di trent’anni  Berger aveva  lasciato l’Inghilterra e viveva in un villaggio sulle montagne del Giura francese. Una scelta di vita e  filosofica. Per potersi dedicare al disegno e della scrittura  come pratica sovversiva, cercando un rapporto diverso con il tempo e con lo spazio diverso da quello imposto dal produrre e consumare.