La cittadina dell’accoglienza e i movimenti calabresi si stringono attorno al sindaco Domenico Lucano. Lui ritira le dimissioni seguite all’ennesimo tentativo di gettare ombre sul suo operato. E dice: «Nella mia idea di militanza non esistono atti per fini personali»

«Sono Peppino Lavorato e siamo qui per chiedere a Mimmo Lucano di restare, di non dimettersi». Peppino Lavorato è un pezzo di antimafia in carne e ossa. Quando insieme a Peppe Valarioti ha dato inizio alla Rinascita di Rosarno, se lo è visto morire tra le braccia. Un omicidio politico e mafioso rimasto impunito, dal 1980. Oggi Peppino, con i suoi quasi 79 anni, è a Riace per difendere un’altra primavera, quella del sindaco Mimmo Lucano. «Le mafie forse hanno imparato una nuova strategia: non mi chiamano con le persone che contano, con gli amici degli amici, perché io non riconosco queste autorità. Non mi fanno intimidazioni, violenze eclatanti, perché sono consapevoli di rendermi più forte. Rimangono due possibilità: la mia vita o le diffamazioni e le denigrazioni», dice Lucano all’indomani dell’ennesimo tentativo di «gettare ombre su Riace».

Venerdì 30 dicembre, è una delle sere più fredde che si siano viste in Calabria. Fuori dal palazzo comunale, la piazzetta è gremita. Su uno striscione una frase del Che: “La mia casa continuerà a viaggiare su due gambe e i miei sogni non avranno frontiere”. Si sta per strada, perché poco dopo l’annuncio del sindaco la mediateca che avrebbe dovuto ospitare il consiglio comunale aperto è stata devastata: hanno distrutto servizi igienici e suppellettili, tagliato i tubi dell’acqua e allagato la grande sala per poi rovistare tra gli archivi e affondare i documenti sul pavimento. Ma il vento gelido, il mar Jonio in burrasca e le festività non hanno impedito a centinaia di persone di raggiungere Riace, e ai riacesi di raggiungere il palazzo del Comune. Stasera il consiglio comunale deve decidere se accettare o respingere le dimissioni del sindaco. E i consiglieri le respingono, persino quelli di opposizione.

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