La Corte respinge il quesito sul jobs act. Il governo brinda - e punta a evitare anche quello superstite sui voucher - e le opposizioni parlano di sentenza politica. In realtà, però, era più una sentenza annunciata

Niente da fare: il quesito referendario proposto dalla Cgil che avrebbe reintrodotto l’art.18 e smontato il Jobs act, è stato giudicato inammissibile dalla Corte Costituzionale. È arrivata così, dopo due ore di camera di consiglio, una sentenza in realtà abbastanza annunciata. Tant’è – notano subito le agenzie – che la stessa Cgil (dove pure Camusso annuncia un possibile ricorso alla Corte europea) aveva già pronti i cartelloni con scritto “Due Sì per l’Italia”, per la prima conferenza stampa post sentenza.

Lo stesso professor Massimo Villone, parlando con noi di Left, aveva riconosciuto le ragioni di un un certo pessimismo e indicato l’appiglio tecnico che difficilmente i giudici, anche pressati dalla maggioranza di governo, si sarebbero lasciati sfuggire. Quello sul Jobs act, diceva Villone come altri, in realtà sarebbe potuto esser valutato come un quesito parzialmente propositivo, almeno nei suoi effetti, ripristinando tutele tolte dall’ultima riforma ma – «attraverso un’operazione di ritaglio» – estendendo, ad esempio, l’art.18 anche alle imprese con più di cinque dipendenti.

La Corte ha invece detto sì al quesito che abolisce i voucher e al terzo, su cui la Cgil ha raccolto le firme, sugli appalti. Procedura vorrebbe che ora il governo fissasse la data, in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. Non è detto però che neanche questi si faranno, non entrambi, almeno.

Le reazioni alla sentenza sono infatti quelle prevedibili, con la destra e l’area di governo che brinda per lo scampato pericolo: ora bisogna solo evitare anche il quesito sui voucher, per cui dovrebbe arrivare apposito intervento legislativo a cui – come dice anche Beatrice Lorenzin, tra gli altri, commentando la sentenza – Poletti sta già lavorando e che dovrà esser poi valutato dalla Cassazione.

Il motivo per cui da sinistra si parla di una sentenza “politica” – oltre a alcuni precedenti, rievocati, ad esempio, dalla senatrice Loredana De Petris nel post qui sotto – è che molti esponenti della maggioranza brindano proprio per le conseguenze politiche della sentenza, che per Maurizio Sacconi, ad esempio, evita «un conflitto sociale e politico antistorico».

Per Maurizio Lupi, invece, scongiura un referendum che – se perso dal governo, come previsto dai più, «avrebbe riportato indietro la legislazione sul lavoro a un sistema rigido e senza flessibilità, con il risultato di ingessare ulteriormente il mercato del lavoro e lo sviluppo soprattutto delle piccole imprese». «Per fortuna le lancette non tornano indietro», dice poi Nicoletta Favero, senatrice dem e segretaria della commissione Lavoro.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.